giovedì 31 maggio 2007

La lezione delle elezioni

Il risultato della tornata elettorale amministrativa di domenica scorsa ha avuto un risultato inequivocabile: la crescita del centrodestra ed un calo nettissimo del centrosinistra. Questo dato indica che in questi anni si è verificata una trasformazione epocale dell’elettorato di sinistra: in precedenza la fedeltà e la disciplina dell’elettore di sinistra era inossidabile, pur di sconfiggere l’avversario erano disposti a votare sempre e chiunque. Questo aspetto era particolarmente evidente con la legge maggioritaria, nei collegi elettorali uninominali, dove il candidato “sinistro” faceva sempre il pieno dei voti, mentre il candidato di centrodestra quasi mai arrivava ad acquisire la somma dei voti espressi a favore dei partiti. Quindi a fronte di un elettore di centrodestra severo nel giudicare il candidato proposto e, come si è visto durante i cinque anni del governo Berlusconi, anche pronto a mandare segnali di insofferenza ad ogni occasione di elezioni amministrative o suppletive, avevamo degli elettori “rossi” disciplinati al massimo. Questo diverso grado di fedeltà produce una democrazia squilibrata, ma oggi si è visto che anche dall’altra parte non si firmano più deleghe in bianco. Già c’era stato qualche segnale in passato, come ad esempio le regionali del 2000, ma questa volta le proporzioni del calo sono impressionanti. La speranza è che questo induca i loro dirigenti a costruire una sinistra più liberale, più innovatrice, più europea, perché un conto è perdere le elezioni e trovarsi al governo un Tony Blair, ben diverso è perdere e trovarsi un Diliberto nella maggioranza. Questo sarebbe il bene dell’Italia ed anche del centrodestra, perché con questo governo Prodi si vince facile, ma senza competizione non si migliora in nessun campo, neppure in politica. Il Partito Democratico dovrebbe essere una risposta? Finora è stata una grossa delusione, non solo perché è stata un’operazione di vertice senza alcun coinvolgimento della base, ma soprattutto perché non ha espresso per ora nessuna idea. Non è un partito identitario e quindi per dare dei punti di riferimento dovrebbe esprimere degli obiettivi; si definisce riformista perché riunisce, dicono loro, le diverse correnti storiche riformatrici della politica italiana, ma non hanno proposto finora neanche una riforma da fare. Sarà perché qualunque riforma degna di questo nome verrebbe immediatamente sbarrata dagli alleati comunisti, sarà perché stanno riunendo solo ora il comitato di 45 saggi (in cui hanno invitato anche Follini! …e con una palla al piede così, fare della strada è molto dura), sarà perché prima devono decidere chi sarà il leader, comunque per ora nulla. I numeri parlano chiaro: vince chi è capace di motivare il proprio elettorato, lo sforzo comunicativo deve essere rivolto a chi è orientato in un senso ma non è convinto ad andare al seggio. E’ una lezione importante anche per la Casa della Libertà, perché questa volta è bastato un anno di Prodi per recuperare consensi ma, giustamente, in futuro per smuovere gli elettori conteranno sempre meno gli slogan e sempre di più i fatti e le proposte tangibili.

mercoledì 30 maggio 2007

ABECEDARIO di Francesco Cossiga

E' un libricino di 101 pagine, in cui Cossiga, dapprima delinea le varie attività dei servizi segreti, definendone i compiti interni ed esterni, illustrando poi l'assetto organizzativo ottimale che si dovrebbe creare per ottimizzarne l'attività. Il tutto, come fa notare Mario Caligiuri nella presentazione, in opposizione alla delegittimazione morale che ha subito l'attività di intelligence del nostro paese in tutto il dopoguerra.

Due passaggi significativi: "L'Italia ha perso le rendite di posizione che possedeva durante la guerra fredda... Essa non può più limitarsi a essere una consumatrice di sicurezza, e di sicurezza prodotta da altri. Deve diventare necessariamente una produttrice di sicurezza, almeno in parte."

"La legalità sostanziale di servizi speciali si basa sulla legittimità dei fini, e può non corrispondere con la legalità formale. Ecco perchè nella maggior parte dei casi, per evitare commistioni e confusioni, i servizi speciali sono tenuti rigidamente separati dagli apparati di polizia che possono rivestire funzioni materialmente identiche... essi hanno compiti, per lo più, solo informativi od operativi non convenzionali, e non compitiprimari di acquisizioni di prove legali..."; anche perchè è compito dei servizi segreti, a differenza della polizia, contrastare anche azioni non illecite.

Il tutto con regole chiare di controllo politico per evitare gli abusi. Durante la guerra fredda non è stato certamente così, l'Italia era terreno di scontro di potenze straniere, come volte volte nei secoli scorsi; oggi non siamo più sotto tutela come in passato, siamo diventati adulti, ciò significa che dobbiamo scegliere e prenderci delle responsabilità. Non sono sicuro che il paese ne sia consepevole.

domenica 27 maggio 2007

Diritto, natura e ragione

“Diritto, natura e ragione” è un libro che raccoglie diversi commenti di Murray Newton Rothbard alle opere di altri studiosi, in particolare Mises, Hayek, Strass e Polany.
L’aspetto centrale del pensiero economico, ma direi filosofico di Murray, è la difesa intransigente della libertà dell’individuo in quanto valore autonomo e superiore rispetto a qualsiasi altra considerazione di tipo utilitaristico. Applicato alla scienza economica il suo modello si oppone fermamente a qualunque ingerenza e limitazione che lo Stato mette in atto nelle vite delle persone, sostiene quindi un liberismo, senza se e senza ma, che di fatto sembra meglio definirsi come anarchismo. L’aspetto peculiare del libro è che Rothbard critica in modo, anche estremamente aspro, autori che si muovono nel suo stesso alveo liberista, ma rispetto ai quali rivendica una posizione purista, tale da finire per negare loro la patente stessa di difensori della libertà individuale.
L’assunto da cui parte Rothbard è che l’uomo, con la sua razionalità, possa arrivare a formulare una scala di valori, la superiorità della libertà individuale deriva quindi da una dimostrazione razionale e scientifica della stessa. In base a questo qualunque forma di relativismo risulta erronea e quindi da scartare.
Rothbard non nega l’esistenza comportamenti irrazionali, ma nega qualunque validità, anche se, a me sembra, in generale, ci si può anche comportare in modo irrazionale in modo consapevole, si può accettare il danno economico derivante da una certa scelta, in cambio di una gratificazione di altro genere.
Un approccio così filosofico alle questioni economiche, comunque, mi appassiona molto meno delle sue implicazioni pratiche, soprattutto di politica economica, per questa ragione ho trovato più interessante l’elenco di obiezioni posizioni stataliste che Rothbard contesta ad Hayek.
Dalla lettura del libro, tirando le somme dei vari argomenti trattati e degli autori citati, mi trovo vicino alle idee di Mises e Machiavelli.
Ludwig von Mises considera il libero mercato come il sistema in grado di produrre maggior benessere per tutti e sulla base di questo assunto lo considera il miglior sistema, senza implicazioni etiche.
Quanto a Machiavelli cito testualmente dall’introduzione di Roberta Adelaide Modugno: “Strauss critica i pensatori moderni difendendo invece la filosofia politica classica. Per gli antichi il vero fine della vita politica era la virtù piuttosto che la libertà e la filosofia politica era guidata dalla ricerca del miglior ordine politico. Ecco che per Strauss machiavelli diventa il genio malefico della modernità, avendo sfidato gli antichi insegnamenti cristiani ed avendo reso indipendente la realtà politica dalla morale.”
La politica ha dei compiti, si definisce degli obiettivi, propone ed applica dei mezzi per raggiungerli. Questa amoralità della politica è la garanzia che fini etici non siano il paravento per giustificare l’arbitrio di pochi ai danni dei cittadini. Le persone che si occupano di politica è bene, e direi necessario, che abbiano dei valori morali e degli ideali, ma lo Stato nasce per fini pratici e proprio per non diventare immorale, che la politica amorale e non perdere il legame con le implicazioni concrete e materiali delle proprie azioni.

sabato 19 maggio 2007

Family Day, one week later...

Una settimana fa centinaia di migliaia di persone scendono in piazza e fanno discutere il paese di famiglia.
Il Family Day era a favore della famiglia o era contro i Dico? Sicuramente entrambe le cose, il bisogno di sostegni alla famiglia è molto diffuso e lo Stato italiano brilla per la sua assenza in questo campo, per questo è più difficile accettare che si occupi di altro quando la natalità italiana ha cifre da autoestinzione.
La mia impressione è che la mobilitazione del mondo cattolico si sia diretta contro quello che i Dico vogliono rappresentare, perché nella sostanza i Dico sono una legge più inutile che pericolosa, però sono stati venduti all’elettorato come il primo passo nella direzione di un’Italia più zapatera, un’Italia destinata ad allinearsi all’insensata strada europea che vieta l’uso di parole come mamma e papà ed allora la reazione c’è stata ed è stata imponente.
Ognuno vive il proprio piccolo mondo e giudica in base a quello. Per quello che vedo io la famiglia non è in crisi come modello, molte coppie che conosco vorrebbero costruire dei rapporti duraturi, avere figli, ma dopo gli studi bisogna affrontare tutta una serie di situazioni che sarebbe meglio anticipare al periodo scolastico o universitario: stage, tirocinio, specializzazione, pratica, poi se non basta si fa un master ed il tempo passa; finalmente, quando i coetanei europei sono anni che procedono con la loro carriera professionale, si comincia a svolgere un lavoro vero. E’ finita qui? No, perché fai un po’ di conti e scopri che acquistare una casa è praticamente impossibile, non so nel resto d’Italia, ma con i prezzi che ci sono qui da noi in Liguria, bisogna fare un mutuo secolare. Poi, comunque, visto che procreare dopo i cinquanta anni è un po’ difficile, ti butti e fai il figlio tanto desiderato. Scopri che è la cosa più bella del mondo, più di quanto potessi immaginare, ma scopri anche che la pressione su di te diventa ai limiti del sostenibile, scopri anche che lo Stato Sociale esiste solo nei discorsi dei sindacalisti, perché nella realtà non se ne vede traccia. L’unico ammortizzatore sociale che esiste è la famiglia stessa, sono i nonni. Per me non voglio niente, odio chi si lamenta sempre, chi piagnucola, chi elemosina, sto già dando e se qualcosa cambierà non farò in tempo ad usufruirne. Però il problema esiste ed è il problema centrale.
A piazza San Giovanni lo stesso Pezzotta (vedi http://zamax.wordpress.com/2007/05/13/family-day-ragioni-e-preoccupazioni/ ) dice che bisogna “stabilire il principio che ognuno deve poter avere i figli che vuole, senza che questo comporti una drastica diminuzione del tenore di vita”.
Se però non dice dove prendere i soldi, il discorso assomiglia pericolosamente ad un comizio elettorale, perché è regola fondamentale del politico parlare di soldi che lo Stato eroga, ma non dire chi deve pagare. Non vorrei che fosse il preludio ad un nuovo partito, magari impostato unicamente sulle questioni etiche.
Gli organizzatori avranno le loro legittime ambizioni politiche ma riflettete: il Parlamento legifera su questioni etiche al massimo una volta nell’arco della legislatura, mentre tutti i giorni decide dei nostri soldi ed è prima di tutto di aiuti finanziari che ha bisogno la famiglia; deduzioni per i figli a carico, ma non solo, ci vorrebbe un buono spendibile dalle famiglie per pagare baby sitter, asili, pannolini, latte artificiale, seggiolini auto. Diamo almeno una cifra vicina a quella dei nostri vicini francesi… Purtroppo i tesoretti di cui si favoleggia in realtà non esistono e quindi bisogna trovare le risorse; siccome io non mi candido a nulla, mi permetto il lusso di suggerire dove prendere le risorse: l’unica strada che mi sembra percorribile nel breve è parificare l’età pensionabile femminile a quella maschile; nel lungo periodo: lavorare almeno quanto i tedeschi. Questo spetta al Parlamento; invece spetta alla piazza, ai movimenti, a tutti fare la battaglia culturale.
Anche perché più di questo la legge non può fare, di sicuro non può imporre modelli, ricordo che ci provò l’imperatore Augusto ma le sue leggi a favore della famiglia non sortirono effetti, perché la società su queste questioni va per conto suo, per questo la battaglia culturale va fatta in società.
Una battaglia che deve difendere il concetto di famiglia e la sua unicità. Però deve anche essere una battaglia di civiltà nei modi e nei contenuti. Sono contrario all’adozione da parte delle coppie gay, ma da questo a passare all’insulto e all’intolleranza verso i gay mi sembra assurdo. I gay che conoscono io sono persone piene di qualità, quello che fanno nel loro letto a me non interessa e non riesco a comprendere come possa morbosamente essere argomento di interesse.
Detto questo chi vuole convivere con chiunque è libero di farlo, ma se chiedi una tutela allo Stato è giusto che lo Stato ti chieda in cambio un minimo di impegno, quindi vai in comune, firmi, ti sposi ed allora scattano le tutele previste dalla legge. Se poi si vuole modificare il diritto successorio si discuta la legge sulla successione; se poi mi si dice che i conviventi dei parlamentari hanno delle prerogative che altri non hanno, beh estendere a tutta la popolazione i privilegi dei parlamentari italiani sarebbe fantastico, vivremmo qualche settimana alla grande, sì certo, prima della bancarotta.
Rispetto per le abitudini ed i sentimenti di tutti, ma la famiglia è una cosa sola e non l’ha inventata la Chiesa, lo stesso concetto esisteva anche prima. Uno dei miei scrittori preferiti, l’antropologo Desmond Morris, ateo ed anche abbastanza ostile verso il cattolicesimo, descrive la coppia fissa tra uomo e donna come la forma comportamentale tipica della nostra specie, anzi la considera uno dei tratti specifici che l’ambiente ha selezionato durante la preistoria e che ci distingue dagli altri primati. Quindi non è una questione di Stato laico o teocratico, semplicemente il discrimine positivo che reclamo a favore della famiglia è legato al fatto di essere il luogo in cui un nuovo individuo può essere cresciuto.
Da un punto di vista numerico e di comunicazione la manifestazione è stata un grande successo. Dal punto di vista politico il bilancio è più nebuloso: i Dico erano già bloccati prima del Family Day, le dichiarazioni di Mastella in proposito avevano già decretato l’impossibilità di avere i numeri al Senato per far passare la legge. Se ci sono altri obiettivi, per ora non sono stati esplicitati in modo chiaro. Per il resto eviterei di dare un colore politico netto alla manifestazione.
Il no dei manifestanti è un no al Governo sui Dico, su questo non c’è dubbio, ma l’arruolamento automatico dei partecipanti nelle file della CDL mi sembra precipitoso, io non sono cattolico, ma le parrocchie le ho frequentate a lungo e la percentuale di coloro che abitualmente votano il centrosinistra è molto grande. Forse sono proprio questi ultimi che avevano qualcosa da dire ai propri alleati di Governo, qualcosa tipo: datevi una calmata, se può parlare un onorevole Caruso in Parlamento allora può ben parlare anche un vescovo Bagnasco in televisione!

giovedì 17 maggio 2007

Paul Bremer si difende

L’amministratore americano dell’Iraq tra il 2003 ed il 2004, Paul Bremer, è da tempo accusato di avere grosse responsabilità nella creazione del caos iracheno. La decisione più criticata è stata quella relativa allo scioglimento, leggi licenziamento, dell’esercito di Saddam e la cacciata dei quadri dirigenti del partito Baath. Mancando gli uomini che hanno mantenuto in ordine, con il terrore, il paese, si è scatenato l’inferno, inoltre gli ex soldati rimasti disoccupati sono andati ad ingrossare le fila dei gruppi terroristici e delle milizie che fanno scorrere il sangue in Iraq.
Il Washington Post ha pubblicato la settimana scorsa un articolo (segnalato dal blog di Camillo http://www.ilfoglio.it/camillo/) in cui Bremer difende con forza la propria scelta. L’argomentazione principale consiste nel fatto che non si poteva costruire un Iraq democratico lasciando gli stessi uomini del regime, inoltre questo avrebbe alienato da qualunque collaborazione gli Sciiti ed i Curdi che costituiscono l’80% della popolazione. Paragonandosi poi ad Eisenhower cita l’esempio della Germania nazista dove fu fatto lo stesso. Quest’ultimo paragone mi appare molto debole, innanzitutto perché, come lui stesso ammette, Saddam Hussein ha governato per un periodo molto più lungo, decenni in cui ha annientato completamente ogni forma di dissenso, eliminando fisicamente, perfino all’interno della sua famiglia, qualsiasi voce fuori dal coro. Hitler al momento dell’invasione della Polonia governava da soli 6 anni e, pur avendo duramente colpito ogni opposizione, non mancavano coloro che pensavano ad una Germania senza di lui, tanto è vero che alcune delle azioni più disumane il regime preferiva compierle di nascosto.
Ancora meno verosimile il paragone sullo scioglimento dei due eserciti: in pratica in Germania non c’era più un esercito da sciogliere perché completamente annientato, il paese con oltre 7 milioni di morte era un paese completamente distrutto, un paese incapace di qualunque resistenza, tanto è vero che nemmeno le fedelissime SS credevano possibile attuare qualunque forma di disturbo degli occupanti e le uniche operazioni che cercarono di organizzare furono le fughe all’estero. Bisogna dare però atto a Bremer che l’unica strada indicata dai suoi superiori per il dopo Saddam era impiantare delle istituzioni democratiche ed in questa logica lui si è mosso, è vero inoltre che nelle settimane successive alla caduta di Bagdad la situazione appariva tranquilla, poi la situazione è cambiata, il nemico è mutato ed è cominciata un altro tipo di guerra. Bremer è stato frettolosamente condannato dall’opinione pubblica, la questione su come dobbiamo porci di fronte alle dittature però è ancora aperta e non sembra ci sia molta voglia di affrontarla.

lunedì 14 maggio 2007

Adunata!







Tanti tricolori, tante penne nere, i giovani, i vecchi, la sfilata. L’adunata degli Alpini è un appuntamento dove c’è un’atmosfera particolare, si parla di valori, la Patria, lo Spirito di Corpo, si evocano episodi tragici ed eroici delle guerre passate ed insieme c’è il goliardismo, la voglia di stare insieme, di fare baldoria. Per me è stata l’occasione di riabbracciare cari compagni di naja.
Cuneo 2007 un’altra piazza, l’Italia che mostra un altro di quei suoi volti poco rappresentati, poco raccontati, eppure così comuni, così numerosi.

giovedì 10 maggio 2007

La dimora artica nei Veda

Il professore indiano Bal Gangadhar Tilak, soprannominato dai suoi connazionali Lokamanya, cioè “onorato da tutto il mondo”, scrisse “La dimora artica nei Veda” negli ultimi anni del XIX secolo.
Mi sembra giusto sottolineare questo dato, perché, come lui stesso non manca di rilevare, le conoscenze relative ad alcune materie trattate nel libro, in particolare la storia climatologia del nostro pianeta, muovevano allora solo i primi passi.
Tilak apparteneva alla casta sacerdotale dei Bramini, ma oltre a possedere una conoscenza dettagliatissima dei Veda e degli altri testi sacri Indù, mostra di essere uno studioso polivalente che coniuga con padronanza astronomia, linguistica e mitologia. La tesi fondamentale del libro è che nei Veda si riscontrano numerose e precise indicazioni del fatto che gli antenati degli Arii, invasori dell’India, abbiano vissuto nei pressi dell’artico o comunque all’interno del circolo polare. Già un secolo fa appariva chiaro che il clima aveva subito, nel corso dei millenni, cambiamenti drastici, ma rimaneva la difficoltà di datare la sequenza dei riscaldamenti e raffreddamenti terrestri, inoltre mancava completamente una cronologia affidabile riguardo la comparsa dell’uomo sulla terra, nonché delle sue migrazioni attraverso i continenti. Quest’ultimo problema è rimasto controverso praticamente fino ai giorni nostri, fino a quando, pur tra aspetti ancora da chiarire, grazie agli esami del DNA la teoria “out of Africa” è diventata largamente maggioritaria tra gli studiosi rispetto a quella “multiregionale”.

Ad un secolo di distanza cosa possiamo dire della teoria di Tilak? Non ci sono prove archeologiche che gli Ariani prima di invadere l’India e l’Europa provenissero dall’estremo nord, né peraltro ricerche approfondite in questo senso sono state fatte. Del resto a tutt’oggi le condizioni ambientali artiche restano proibitive. Possiamo però citare una serie di indizi che si accordano con essa. Prima di tutto un aspetto fisiologico delle popolazioni artiche attuali: gli Eschimesi presentano precise caratteristiche fisiche (e culturali) che mostrano un adattamento alle bassissime temperature. Cito ad esempio conformazione, distribuzione del grasso cutaneo, zone di sudorazione; inoltre sono in grado di sfruttare l’ambiente in un modo per cui la loro dieta risulta ricca di vitamina D a tal punto da non aver bisogno dell’irradiazione solare per sintetizzarla. Nulla di questo è presente nelle popolazioni europee che vivono alle latitudini più settentrionali. Non presentano adattamenti fisiologici particolari al freddo; presentano invece un accentuato sbiancamento della pelle che sappiamo avvantaggiare all’estremo nord in quanto permettendo ai deboli raggi del sole di penetrare negli strati sottocutanei consente la sintesi della fondamentale vitamina D. Da tutto ciò è logico supporre che gli antenati dei nordici europei abbiano vissuto all’estremo nord in periodi non particolarmente rigidi. Di questo ragionamento abbiamo una conferma storica nella vicenda della colonizzazione vichinga della Groenlandia. I Vichinghi giunsero sulle coste della Groenlandia verso la fine del X secolo, durante la fase calda medioevale, quando il clima, più mite dell’attuale, permise loro di sopravvivere con forme di agricoltura ed allevamento analoghe al nord Europa. Quando il clima iniziò a raffreddarsi i Vichinghi, che non avevano una cultura materiale adatta al clima artico, dovettero abbandonare la Groenlandia che non era più una Green Land, lasciandola agli Inuit.
Ci sono altre scoperte degli ultimi anni che ci parlano di migrazioni artiche e riguardano il popolamento delle Americhe. Quasi tutti i popoli autoctoni americani, che per comodità chiamerò Amerindi, discendono da tribù di cacciatori che dall’Asia sono passati in Alaska e da qui hanno popolato il continente. La migrazione principale è datata in modo incerto, ma l’ingresso viene continuamente retrodatato ed attualmente lo si ritiene sicuramente antecedente a 15.000 anni fa; un’altra migrazione più recente, sempre lungo la stessa direttrice, viene invece associata ai soli popoli parlanti le lingue della famiglia Na-Denè. Alcune ricerche hanno però evidenziato nella parte nordorientale del continente un antico apporto genetico da parte di popolazioni di razza caucasica. Questo dato è peraltro coerente con il ritrovamento dello scheletro dell’Uomo di Kennewick e dei reperti di punte di lance simili alla cultura Solutreana. Un’altra indizio in questo senso lo possiamo ricavare dalla ricerca derivante dal progetto Genographic. Questo progetto, portato avanti da National Geographic, con IBM e la Waitt Family Foundation sta analizzando il cromosoma Y di tutte le popolazioni mondiali per tracciare delle mappe delle antiche migrazioni umane. Uno dei marcatori genetici trovati, denominato con la lettera X è presente in Europa Occidentale ed in Nord America, ma non ha lasciato alcuna traccia nella Siberia settentrionale. Quindi l’unica spiegazione logica è che gli uomini portatori di questo gruppo siano giunti in America andando verso Ovest. Pur essendo assodato che anche nella preistoria la navigazione era praticata, è difficile pensare ad una navigazione oceanica in un’epoca così remota; forse questi pionieri di tanti millenni fa, hanno seguito un percorso artico in un momento climatico favorevole. A questo proposito dobbiamo considerare anche che le isoterme non seguono esattamente i paralleli: ad esempio ai giorni nostri, a parità di latitudine fa molto più freddo nella zona del Canale di Bering che non nella parte compresa tra Islanda e Norvegia. E’ possibile, ma direi probabile che ci siano state fasi in cui le correnti oceaniche abbiano prodotto una situazione capovolta. Durante la fase acuta della glaciazione più recente, terminata circa 10.000 anni fa, i ghiacci arrivavano fino al cuore della Francia, praticamente tutta l’Europa a nord delle Alpi aveva un clima polare. Questo immenso ghiacciaio arrivava, attraverso l’Atlantico fino a Terranova, la massa di acqua imprigionata era tale che il livello dei mari era più basso di circa 120/150 metri. Non so se dal lato dell’Oceano Pacifico il clima fosse ugualmente così freddo, ma se così non è, le terre emerse tra il nord dell’Alaska ed il nord della Siberia Orientale erano forse percorribili. In ogni caso di là sono arrivati e da qualche parte devono essere passati. Lo stesso problema si pone anche per gli Ainu; presenti da epoca remota nell'arcipelago giapponese, circondati da popolazioni di origine diversa, non è chiaro che percorso abbiano fatto per giungervi. Anche per loro una discesa da nord è un'ipotesi da esplorare.
Chiudendo con queste divagazioni ancestrali, tornando a epoche più vicine a noi ed alla dimora artica degli Ariani, da quello che sappiamo la fase calda che meglio si accorda con l’ipotesi del Tilak dovrebbe essere quella che copre grosso modo il periodo tra 5.000 e 3.000 anni Avanti Cristo. In questo periodo il clima era certamente più caldo dell’attuale e consentiva l’occupazione di terre all’estremo nord. Questo arco temporale è compatibile con la teoria espressa dalla Gimbutas, secondo cui, dopo alcune ondate più antiche, il grosso delle migrazioni che hanno portato i popoli di lingua indoeuropea verso l’India, l’Iran e l’Europa è datato intorno al 2.000 AC. Personalmente mi sembra che le prove che vedono l’epicentro di questo sommovimento nelle pianure eurasiatiche tra i fiumi Volga e Ural siano molto consistenti e suffragate anche in questo caso dalle indagini genetiche (Vedi la mappa sintetica dell’Europa ricostruita dai valori della terza componente genetica principale, rif: “Storia e geografia dei geni umani” di Luigi Luca Cavalli-Sforza, Paolo Menozzi e Alberto Piazza ). Se queste tribù, associate alla cultura Kurgan, sono giunte sulle sponde del mar Caspio discendendo il corso del fiume più lungo d’Europa, spinti dal diluvio di ghiaccio descritto nell’Avesta rimane per ora una congettura, ma una cosa è certa: dopo più di un secolo la tesi proposta dal libro è ancora aperta e questo è un punto a favore per consigliarne la lettura.