mercoledì 29 febbraio 2012

5 anni da blogger

Sono passati cinque anni da quando iniziai a scrivere questo blog. Mi sembra incredibile ma è così. Di solito si inizia un blog spiegando i perché e i percome nel primo post, io invece ho aspettato che arrivasse il momento giusto, ed è arrivato.

Innanzitutto scrivo perché mi piace scrivere, mi aiuta a mettere in ordine i pensieri, a mettere alla prova le mie convinzioni, perché un conto è avere un’idea, un altro è metterla per iscritto, spiegarla.

Che tipo di blog ho voluto creare? Il mio blog è la versione moderna del messaggio nella bottiglia, viene lanciato nel mare di internet e prima o poi, in qualche posto, chissà quando qualcuno si imbatterà nel messaggio e ci troverà qualcosa di interessante.

Non è un blog facile. Non è un blog leggero. I pochi che si avventurano nella lettura devono essere molto motivati! Non è fatto di slogan, non è fatto di copia e incolla, non ripete i titoli dei giornali. Anzi uno degli scopi del blog è instillare dubbi, mostrare l’altra faccia della medaglia, ribaltare i luoghi comuni, quando non proprio sbugiardare le verità che vengono passate dall’informazione ufficiale. La quale vive in uno stato di conformismo deprimente e di monopolio culturale. Nei talk show vanno sempre le stesse persone che ripetono stancamente la propria parte da anni, dicendo le stesse cose e non c’è mai spazio per una visione diversa, alternativa, quella che invece si può trovare qui.

Spesso il mondo dei blogger viene descritto come una massa di frustrati, egocentrici, maniaci, creduloni, turpiloquianti, poco colti che sfogano con gli insulti la propria rabbia.

A volte è così.

Ma, se si cerca, tra i blog si può trovare anche tanta buona informazione, persone che pensano, ragionano e scrivono in modo non banale. E’ un modo diverso, un modo in più, per imparare e per riflettere. Spesso inoltre il blogger ha dei vantaggi decisivi nei confronti del giornalista: può parlare solo di ciò che conosce bene, non deve vendere il proprio prodotto, non deve vendere sé stesso.

E quindi può riportare i fatti anche se sono scomodi, o impopolari.

Per chiudere, ringrazio tutti quelli che mi hanno seguito fino ad oggi, gli affezionati che tornano e gli occasionali.

Se intuite qualcosa che non riuscite a spiegarvi, sentite solo che c’è; se è tutta la vita che avete la sensazione che c’è qualcosa che non quadra nel mondo, non sapete bene di che si tratta ma l’avvertite… bene, anche in futuro potete tornare e vedere che, spesso, le cose non si riescono a capire perché le spiegazioni che ci danno sono sbagliate, scriverò ancora per esplorare insieme quanto è profonda la tana del bianconiglio.

domenica 19 febbraio 2012

19 febbraio 1942. Attacco all'Australia.

L’avanzata del Giappone durante la Seconda Guerra Mondiale è una delle più strabilianti guerre di conquista di tutta la storia militare. Il Giappone, già in guerra da alcuni anni con il paese più popoloso del mondo, la Cina, di cui occupa praticamente tutta la parte costiera, scatena un’offensiva che porta all’attacco di Pearl Harbour ed alla conquista in pochi giorni di Singapore (perno della presenza militare britannica nell’area) e nei mesi successivi di Malesia, Indonesia, Filippine, Birmania. Sotto controllo giapponese è anche, con il “consenso” del governo di Vichy, l’Indocina francese.

In questo contesto il 19 febbraio 1942 una squadra navale giapponese composta da quattro portaerei sferra un attacco aereo contra la città australiana di Darwin. Il bombardamento si concentra sulla zona portuale e le infrastrutture, provocando molti danni ed alcune centinaia tra morti e feriti. Sembra il preludio ad un’invasione, del resto la città di Darwin, unico grande centro del nord dell’Australia dista migliaia di chilometri dalle città principali del paese, situate nella zona sudorientale.

L’invasione però non si concretizzò. Il fronte su cui erano impegnate le forze del Sol Levante era diventato immenso e la forza propulsiva dell’espansione si esaurì. Nel frattempo le forze armate americane, sottodimensionate rispetto alle esigenze della guerra, riducevano di mese in mese il gap con i propri avversari, arrivando ben presto a sovrastarli con una produzione bellica irraggiungibile per il resto del mondo.

Le incursioni aeree giapponesi sull’Australia settentrionale continuarono fino alla fine del 1943, quando il riflusso dell’Impero Nipponico mise l’Australia fuori dalla portata delle sue forze aeronavali.

venerdì 10 febbraio 2012

W gli Anni Ottanta. Atto terzo.

C’è ancora qualcosa da dire sugli Anni Ottanta? Sì, ancora
una cosa: vengono rappresentati come un miscuglio di edonismo egoista,
consumismo, disimpegno, ma tutto ciò fu semplicemente una reazione immunitaria
alla grottesca caricatura che della parola “impegno” fu data nel decennio
precedente.
Tutte le epoche, i decenni, i periodi portano con sé novità
positive e negative e questo vale per gli Anni Settanta, Ottanta e tutti gli
altri. Quello che rigetto è il luogo comune sull’impegno degli Anni Settanta,
successivamente dimenticato e tradito.
Impegnarsi di per sé implica fare qualcosa di concreto,
mentre il cosiddetto impegno politico era diventato un blaterare vuoto su
sistemi che non possono stare in piedi nemmeno nel mondo dei fumetti. Parlare
di valori, come alcuni fanno ancora oggi, ricorrendo a quella voce triste e
grave, condendoli con tutti gli stereotipi e i luoghi comuni possibili, con
l’ipocrisia di chi li usa come arma di propaganda a senso unico, ecco così
facendo i valori si svuotano, perdono di significato. Un po’ come quando senti
parlare Fabio Fazio di legalità e ti viene voglia di violare qualche legge.
L’impegno degli anni Settanta, che tanti rimpiangono, è stato seppellito da
Fantozzi quando decreta che la Corazzata Potionki è una cagata pazzesca, è stato
seppellito dalla noia mortale di personaggi che si prendono troppo sul serio,
che parlano di lavoro e non hanno mai lavorato, parlano di contratti e non
hanno mai assunto nessuno, ma soprattutto da quel tono da salvatori del mondo,
da moralizzatori, educatori del popolo. Anch’io parlo di cose noiose, leggo,
scrivo, guardo cose noiose, ma mica per questo mi sento il Mosè della
situazione che guida il popolo verso la terra promessa ed infatti appena ho
l’occasione alleggerisco, sdrammatizzo. Quell’impegno è stato seppellito
dall’intolleranza, dalla violenza, dalla pretesa di uniformare tutti e tutto
alle verità comode preconfezionate, di presumere di essere sempre dalla parte
di chi ha ragione e mai del torto.
Quell’impegno si è addormentato per non aver saputo distinguere
tra cosa significa essere persone serie e la seriosità di chi non è capace di
ridere, di scherzare, di divertirsi. Perché la seriosità e la pallosità è
giustificabile se uno lavora, fa qualcosa di utile, allora lo sopporto, ma la
seriosità unita alle chiacchiere, è inutile, è dannosa, è deprimente, è una
perdita di tempo.
Chi denigra gli Anni Ottanta dice che prima si voleva
cambiare il mondo! Sì ma come? In peggio forse. Grazie al Sessantotto adesso ci
si può sposare anche se non si è vergini, d’accordo, ma a parte questo che cosa
c’è da celebrare? Il rito di andare a tirare sassi alla polizia e poi
propinarci il vittimismo se la polizia s’incazza?
Non si può sempre associare il bene con la mortificazione,
la privazione, il mondo migliora anche sprigionando l’entusiasmo, l’energia, la
positività, dissacrante, ironica, dinamica, divertente, che cova dentro ogni
essere umano! I sacrifici vanno bene per migliorare sé stessi, non come ricetta
da propinare al prossimo. E poi all’epoca persino a sinistra si divertivano e
ridevano, i miei amici “sinistri” leggevano avidamente Cuore e si davano da
fare per sostenere che un sogno legittimo nella vita è “farsi praticare sesso
orale da una nota (e bona) showgirl”*.
Non sono gli Anni di Plastica contro gli Anni di Piombo,
semmai sono gli anni delle patatine
fritte, contro gli anni dell’aria fritta. Per questo li apprezzo… anche se non mangio
patatine fritte!


*La locuzione originale era po’ più esplicita.

mercoledì 1 febbraio 2012

La crisi è finita. Comprate BTP.

La crisi è finita: comincia la stagnazione.

Arrivati a un passo dal baratro la politica ha preso la (non) decisione più scontata: nessun Stato europeo deve fallire. Tutti i buoni propositi con cui era nata la BCE sono stati rinnegati ed è chiaro che la BCE interverrà in modo sempre più massiccio per cui non mancheranno compratori per i Titoli di Stato. Questo è quello che è accaduto negli ultimi mesi e sarà così anche in futuro.

Senza l’intervento della BCE, l’Italia e gli altri Stati più deboli sarebbero già falliti e con loro molte banche.

Tutto sommato potrebbe essere anche la scelta giusta, soprattutto se veramente si rinuncerà anche alla politica dei deficit di bilancio perenni e dei debiti statali in costante aumento.

Restano però due problemi principali:

1 – La creazione di liquidità da parte della BCE ha salvato la situazione ma è un frutto avvelenato, porterà a scompensi futuri e comunque è un impoverimento generale. Basta fare benzina per accorgersene. Eppure non basta mai, un coro incessante chiede a Draghi di allargare sempre più i cordoni, fare il prestatore di ultima istanza (cosa che in pratica già fa), stimolare la crescita come la FED (i soldi che “presta” all’1% alle banche non rientrano nella categoria?) , salvo poi piangere pensando a quanto costavano le cose prima dell’Euro (peraltro anche qui dimenticandosi che con la lira il potere d’acquisto diminuiva ancora più velocemente). Comunque non si può prevendere la portata di questi scompensi e delle bolle future, poniamo che questi danni collaterali potrebbero anche essere limitati, resta il secondo fardello da sopportare:

2 – Ancora più preoccupante è infatti il secondo problema: anche se l’Italia e gli altri paesi europei riusciranno a giungere al pareggio di bilancio, stabilizzando la situazione sui mercati finanziari e scongiurando per il momento guai peggiori al sistema bancario, lo faranno con un livello di pressione fiscale e di spesa pubblica elevatissimo. Un livello tale da risultare incompatibile con uno sviluppo economico che possa portare a benefici diffusi. Soprattutto in uno scenario mondiale che si va complicando e con le materie prime sempre più costose.

La nostra Italia ne è l’esempio più eclatante. Occorre ripensare il modello economico e creare uno Stato sociale che sia tale non solo di nome come quello attuale. Per adesso non vedo segnali in questo senso, anzi proprio i più accaniti critici della casta dei partiti, sono quelli che ne chiedono ad ogni occasione l’ampliamento dei poteri.