martedì 26 giugno 2007

Leggi dello Stato e valori del Vangelo

Il dibattito sull’impegno politico e sociale dei cristiani è cruciale per il nostro paese dove la presenza della Chiesa Cattolica è così importante e non andrebbe ridotto, come avviene, soltanto agli interventi della CEI sulle questioni di attualità.
Di solito viene dato per scontato che le norme della morale cristiana dovrebbero essere, per un cristiano, tradotte in leggi dello Stato.
Chi si oppone a questo afferma di solito che esistono anche persone non cristiane alle quali non è giusto imporre o vietare certi comportamenti.
La mia opinione è che utilizzare la forza coercitiva dello Stato per promuovere la morale cristiana è semplicemente contrario all’impianto di valori dei Vangeli.

Vorrei sviluppare il ragionamento incentrandomi sul caso concreto dell’aborto.
Mi sembra pacifico che la pratica dell’aborto sia contraria alla morale cristiana, direi che gli insegnamenti di Gesù sono tutti incentrati sull’amore e sul rispetto della vita in generale e di quella umana in particolare, da questo punto di vista al di là della discussione se l’embrione o il feto sono persone, discussione che non può avere peraltro mai un risultato finale, certamente sia l’embrione, sia il feto sono vita.
Il comportamento di una persona intimamente persuasa di questo, conseguentemente, è il rifiuto dell’aborto. E’ il passaggio successivo, cioè il divieto legislativo dell’aborto, ad essere discutibile; a mio avviso, infatti, nessun postulato dei Vangeli implica che i comportamenti cristiani debbano essere legge dello Stato.
Non dimentichiamoci che la Legge, implica necessariamente una coercizione, se necessario applicata con la forza; spesso ce ne dimentichiamo, soprattutto in Italia dove il rispetto della Legge è lasciato in gran parte alla buona volontà del singolo cittadino, ma le regole comuni che i Parlamenti sanciscono, prevedono sanzioni pecuniarie o la perdita della libertà.
Il cristiano è esortato da Gesù ad annunciare la propria fede, a predicarla, a testimoniarla con il proprio comportamento, ma mai ad imporla. E su questo punto viene a cadere anche l’obiezione laicista che citavo prima, perché anche in una comunità dove il 100% dei cittadini sono cristiani, di confessione cattolica e praticanti, l’imposizione per legge di tale convinzione è contraria al messaggio evangelico.

So bene che la storia spesso è andata diversamente, so bene che ne ha convertito di più Carlo Magno che San Francesco, non voglio fare dell’utopismo spiccio proponendo una Chiesa avulsa dal contesto politico e legislativo, però la Chiesa per prima riflette su se stessa e i politici che affermano di seguirne i principi dovrebbero fare altrettanto.
Tornando al tema dell’aborto vorrei sgombrare il campo da un equivoco: si può essere contrari all’aborto essendo cristiani, si può essere contrari essendo di un’altra religione, si può essere contrari all’aborto ovviamente anche se si è atei; ogni persona che lo ritiene può battersi per vietare la pratica dell’aborto, mi sembra lecito farlo, ciò che non mi trova d’accordo è farlo autoproclamandosi portabandiera di un conformismo al dettato evangelico che non mi sembra tale.

I Vangeli così ricchi di precetti morali sono privi di leggi; i padri della Chiesa affiancano al Vangelo anche l’Antico Testamento, quasi a voler colmare con i Comandamenti un vuoto normativo che appare forse rivoluzionario, forse difficile da praticare, forse spaventa anche coloro che lo devono testimoniare, del resto sono gli apostoli stessi che sollecitano Gesù a dare loro dei comandamenti, senza i quali si sentono forse un po’ persi; Gesù non si sottrae e dà loro il famoso comandamento dell’amore, che lui stesso del resto pratica con loro. Cosa fa se non amarli, nei loro pregi e nei loro difetti, Gesù stigmatizza le loro debolezze, ma solo per esortarli a superarle; parla alle loro coscienze, ai loro cuori direbbe qualcuno, perché sa che l’unica virtù possibile è quella che l’uomo pratica consapevolmente e volontariamente, cioè coscientemente appunto.

Ma allora un cristiano come tale non ha nulla da chiedere alla politica? Ha moltissimo da fare, da chiedere, da proporre, può occuparsi di tutto e dire la sua su ogni cosa e per prima cosa a mio avviso dovrebbe chiedere di praticare liberamente la propria religione.
Ma se della religione ne fa una bandiera politica o un partito entra in contraddizione con se stesso.

giovedì 21 giugno 2007

Erodoto aveva ragione!

Durante il congresso annuale della Società Europea di Genetica Umana, tenuto a Nizza dal 16 al 19 giugno (http://www.eshg.org/eshg2007/), il professor Piazza, insieme ad altri colleghi, ha presentato uno studio sull'origine degli Etruschi. Gli indizi emersi dall'analisi comparata del cromosoma Y di alcuni individui di Murlo e Volterra, con altri di varie zone del Mediterraneo, hanno mostrato che la teoria di Erodoto sull'origine anatolica degli Etruschi sembra fondata.
Infatti le correlazioni tra i campioni prelevati nel sud della Turchia e quelli toscani sono significative. Erodoto narra la storia di una migrazione guidata dal re Tirreno, proveniente dalla Lidia, ed approdata in Italia centrale. La civiltà etrusca così diversa e per molti versi così matura rispetto ai popoli confinanti veniva così descritta in passato:
"Etrusca era la gioia ai piaceri dell'esistenza, ai conviti, alle donne e ai begli adolescenti, ai giochi scenici, crudeli o comici, alla lotta dei gladiatori, al circo e alla farsa, all'indolenza, amabile e contemplativa..." (http://www.centrostudilaruna.it/romualdiindoeuropei.html);
però molto nutrita è stata in questi anni anche la schiera degli studiosi che hanno sostenuto la tesi dell'origine autoctona.
La nuova frontiera della ricerca, che muove i primi passi, sarà l'analisi del DNA fossile.
E poi chissà....
Intanto Erodoto rimane sempre un buon punto di partenza.


mercoledì 20 giugno 2007

Evasione fiscale, retorica, propaganda e realtà

Da anni, periodicamente, si discute di evasione fiscale, ma non cambia nulla: in Italia il sommerso vale almeno il doppio degli altri paesi europei. In questi giorni il Governo, messo sulla difensiva su molti fronti, agita le cifre dell’evasione, giustificando così la propria politica fiscale. Prima di tutto viene da chiedersi: ci sono tanti evasori, perché non andate a prenderli? Visto che non ce lo dicono, ve lo spiego io: prendendo in considerazione solo i contribuenti sottoposti al sistema degli studi di settore abbiamo circa 4 milioni di soggetti da controllare. Già detta così è un’impresa titanica, ma il punto centrale è un altro: il sistema italiano è un intrico di numerosissime norme e di numerosi tributi che rendono il controllo del singolo contribuente un lavoro lungo e pieno di insidie. Il sistema è così cavilloso che produce un curioso effetto: anche chi in buona fede intende rispettare ogni prescrizione può facilmente essere colto in fallo; mentre chi in malafede cerca delle scappatoie, ha un molti appigli per occultarsi.

L’altro punto fondamentale è il peso della pressione fiscale: fino a quando lo Stato chiede una quantità così alta di reddito, renderà sempre conveniente a chi vuole evadere correre il rischio. Abbassare le tasse rende più competitivo il soggetto che paga le imposte, favorisce chi paga, compresi i dipendenti e rende non conveniente correre il rischio per chi evade. Semplificare le regole, abbattere le aliquote e cancellare alcuni tipi di imposte è il primo passo per impostare una seria lotta all’evasione, questo nel breve periodo ha delle conseguenze sul bilancio dello Stato ma, a prescindere dalla Curva di Laffer, si può ragionevolmente puntare a recuperare almeno 100 miliardi di imponibile (sui 270 miliardi stimati di imponibile sottratto al fisco). Può darsi che in Italia ci sia un problema culturale nel senso civico e nel modo in cui i cittadini si rapportano con il fisco, ma non penso che gli italiani siano antropologicamente portati all’evasione, se c’è più evasione che negli altri paesi avanzati significa che c’è un problema di regole: adottiamo le regole che ci sono all’estero e vediamo se le cose cambiano. Per inciso: bisogna anche dimostrare al contribuente che i suoi soldi vengono usati con responsabilità: ma si sa, quando pagano gli altri…

Tutti i menestrelli cantori dei luoghi comuni, alla Furio Colombo per intenderci, citano volentieri l’esempio degli USA, sostengono che il modello americano piace molto al centrodestra fuorché per quello che riguarda il fisco, perché negli USA gli evasori vanno in carcere ed in generale il fenomeno dell’evasione è molto più ristretto che in Italia. Facciamo sommessamente notare a tutti costoro qualche precisazione in merito: se negli USA qualcuno provasse ad introdurre un sistema come quello italiano, questo qualcuno verrebbe preso a calci nel sedere; nel caso in cui si riuscisse ad introdurlo, sicuramente l’evasione aumenterebbe e si avvicinerebbe ai tassi italiani; vogliamo il carcere per gli evasori? Benissimo, però adottiamo tutto il sistema fiscale americano, inoltre la severità penale deve essere proporzionale ai vari reati: negli USA ti beccano a guidare ubriaco e vai in galera, ammazzi qualcuno e vai sulla sedia elettrica; da noi non è esattamente così…

Il fisco deve essere efficiente: è inutile mettere centinaia di regole cervellotiche per non fare ingiustizie, perché così facendo si crea un sistema che non funziona e quindi per definizione ingiusto. Le politiche sociali si fanno dal lato della spesa: lo Stato italiano ogni anno incassa più di 400 miliardi di euro, ha quindi le risorse per svolgere i propri compiti e per intervenire nelle aree di difficoltà. L’idea di voler rendere tutti uguali con prelievi fiscali sempre più progressivi è un’idea infantile e impossibile da mettere in pratica, perché chi produce reddito lo fa per il proprio benessere, se gli si chiede di dare tutto il guadagno eccedente al fisco, o se ne va all’estero o smette di lavorare e se ne va a pescare, in ogni caso le entrate tributarie non aumentano.

Sulle complicazioni congenite della mente del legislatore consideriamo l’esempio dell’ICI: sarebbe da abolire per la prima casa, però c’è chi dice che non è giusto perché c’è chi ha come prima casa una villa e chi ha un appartamentino. E’ vero non è giusto, ma se cominciamo ad introdurre parametri legati alla metratura, al numero di componenti, alla zona ecc. il risultato sarà che diventa impossibile controllare se tutti hanno rispettato le regole e quindi chi fa il furbo avrà buone possibilità di farla franca a danno chi coloro che pagano.

E’ proprio così che funziona oggi, quella che chiamano lotta all’evasione: consiste nel bastonare l’unico che beccano, mentre altri cento non possono essere controllati.

Comunque alla fine quello che conta sono i fatti: sarà il gettito 2007 a dire se la strategia governativa di lotta all’evasione funziona. Ho i miei dubbi, penso che, depurato dall’effetto che sta avendo sulle nostre esportazioni il buon andamento dell’economia tedesca, non darà alcun segno di miglioramento; vedremo se Prodi, Padoa Schioppa e Visco mi smentiranno, ma se così non sarà sarebbe bene cambiare tattica… e soprattutto la squadra!

martedì 19 giugno 2007

Kosovo, confini e profughi

Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale il principio guida dell’intangibilità dei confini degli Stati è sempre stato richiamato in occasione di ogni crisi internazionale.
Questo principio parte dal presupposto che troppe guerre sono state combattute per spostare avanti e indietro dei confini, magari di pochi chilometri e ciò non deve essere ripetuto; si voleva soprattutto impedire che il confine tracciato tra Germania e Polonia, estremamente punitivo per i tedeschi, potesse far sorgere dispute future. L’esistenza delle minoranze doveva essere tutelata all’interno dei vari Stati e non diventare motivo di possibili conflitti. Come tutti i principi rigidi, anche questo si è scontrato in questi decenni con varie realtà che mal vi si adattano, inoltre le potenze mondiali, garanti di questo principio lo hanno interpretato, ovviamente, a seconda delle convenienze.

E’ difficile giudicare se sia un principio veramente utile per prevenire conflitti armati, personalmente credo che ogni Stato debba perseguire i propri scopi con realismo e talvolta cambiare i confini, creare entità statali può essere il metodo migliore, sia per tutelare i propri interessi, sia per evitare tragedie maggiori.
Le vicende della Jugoslavia, il suo disfacimento e le guerre che ne sono conseguite, danno un’indicazione in merito: una volta che il principio viene disatteso bisogna essere pronti ad affrontarne le conseguenze fino in fondo. La divisione della confederazione in 5 nuovi Stati, in un quadro etnico così complicato, ha innescato nuove rivendicazioni a catena, con una spirale di disgregazione ed atomizzazione di cui non si vede la fine.
L’Unione Europea ha dato, durante la crisi jugoslava, la peggior prova di sé: si è mossa in ordine sparso, ha incoraggiato la secessione di Slovenia e Croazia; dimenticandosi tutta la retorica usata durante la rievocazione delle stragi naziste, non ha saputo usare la forza per difendere le popolazioni dal genocidio, non ha espresso nessuna idea sulla sistemazione futura di quei territori. Alla fine è stato l’intervento degli USA a porre fine al massacro. Certo gli americani sono intervenuti alla loro maniera: hanno individuato un cattivo, Milosevic, che del resto si prestava perfettamente per il ruolo, lo hanno preso a mazzate, una parte ha vinto l’altra ha perso. Una guerra complicata, dove ragioni e torti erano difficili da districare è stata risolta con un colpo di spada.

A qualche anno di distanza lo status del Kosovo è ancora da decidere, le forze di sicurezza internazionali sono ancora sul posto, tutti sanno che l’indipendenza è inevitabile, ma nessuno vuole affrontare la questione, il rinvio finora è stata la soluzione più semplice.
Credo sia interesse di tutta Europa superare questo empasse, se c’è una ragione per cui gli albanesi del Kosovo possono staccarsi dalla Serbia ed invece i serbi non possono staccarsi dalla Bosnia, allora tiriamola fuori, sosteniamola di fronte alla Russia ed al mondo; altrimenti bisogna cercare un compromesso, che sicuramente scontenterà tutti, ma in grado di dare qualche compensazione a chi ha perso casa e territorio, di togliere qualche argomento agli ultranazionalisti di Belgrado e possibilmente di chiudere questo capitolo tragico della storia europea.

L’Italia, per ragioni storiche, dovrebbe essere più sensibile di altri all’argomento, perché ha avuto i suoi profughi dall’Istria e dalla Dalmazia. La memoria storica, però, è sempre latitante dalla nostra scena politica e questo caso non fa eccezione.

giovedì 14 giugno 2007

I pensionati non cedono il posto di lavoro?

In ogni discussione sulle riforme pensionistiche e sull’aumento dell’età pensionabile, c’è qualcuno che tira fuori l’argomento relativo al fatto che, se i lavoratori anziani vanno in pensione più tardi, non possono lasciare il posto ai più giovani. L’ultimo in ordine di tempo che mi è capitato di sentire è stato Giorgio Cremaschi, durante l’ultima puntata di Ballarò.
E’ un’obiezione che può sorgere spontanea, ma chi si occupa di questioni legate al mondo del lavoro dovrebbe sapere che, in realtà, a livello generale il meccanismo funziona proprio al contrario.

Vediamo di spiegarlo con un esempio: un pizzaiolo, titolare della propria pizzeria, ha due dipendenti che svolgono il servizio ai tavoli, quando il più anziano va in pensione, il pizzaiolo lo sostituirà con un lavoratore più giovane solo se ritiene di averne bisogno, cioè se pensa che il giro d’affari del locale richiederà l’utilizzo di due camerieri. Se invece gli affari vanno male non assumerà nessuno; se pensa che i clienti aumenteranno magari ne assume due. Lo stesso criterio vale per tutto il mercato del lavoro: dalla casa automobilistica, alla software house, dalla società di navigazione, all’impresa di pulizie, assumere o meno una persona, dipende dalle necessità presenti e dalla stima di quelle future che l’impresa ritiene di avere.

A livello generale il numero di posti di lavoro totali non è una costante, ma è un numero variabile, che dipende da domanda e offerta. Cioè non è come un autobus dove, se tutti sono seduti, bisogna aspettare che uno si alzi per accomodarsi.

Torniamo all’età pensionabile: se funzionasse come pensa Cremaschi basterebbe mandare in pensione tutti quelli che hanno almeno 50 anni e si “libererebbero” una marea di posti. Però le pensioni vengono pagate con i contributi di chi è in attività e ne consegue che se aumenta il numero di pensionati è necessario finanziare il maggiore esborso, quindi o si finanzia con maggiori contributi o con maggiori tasse. In ogni caso si va ad aumentare il costo del lavoro, peggiorando la convenienza ad assumere, quindi ci sarà un certo numero di imprese che, facendosi i conti, vedranno che è meglio non espandere l’attività, perché l’assunzione di un lavoratore in più sarebbe troppo onerosa.

lunedì 11 giugno 2007

10, 100, 1000 Nassirya

In mancanza di idee, per fare notizia restano i disordini, le vetrine spaccate ed i cori infami, tra cui il famigerato 10, 100, 1000 Nassirya. Eppure quello slogan evoca una storia andata male, 10, 100, 1000 Vietnam auspicava infatti Che Guevara, entusiasmato dalle difficoltà americane nel sud-est asiatico. Ma forse oggi, se fosse vivo, dovrebbe ritrattare il suo auspicio, infatti oggi il Vietnam, dopo decenni di fallimenti economici e miseria, ha abbracciato il capitalismo, naturalmente alla cinese. Quindi un capitalismo senza libertà e senza democrazia, questo è oggi lo sbocco, 30 anni dopo il ritiro americano, la cui vittoria invece avrebbe evitato al popolo vietnamita la tragedia e i 1utti dell’esodo disperato dei boat people, avrebbe evitato il genocidio delle minoranze, la repressione e l’oppressione.
1000 di questi Vietnam volevano quelli che bruciavano le bandiere a stelle e strisce allora, anche se qualcuno dirà di no, che le intenzioni erano altre, ma la realtà è che i vietcong non hanno costruito una società nuova, senza sfruttamento, senza ingiustizie, senza disuguaglianza e la storia ha dato loro torto.

Oggi il nemico invocato da emulare, gli estremisti islamici, è un nemico diverso da allora e non possiamo contare sull’effetto del tempo, che finirà per darci ragione. Non possiamo contarci perché, a differenza dei comunisti di allora, non c’è una promessa di benessere alla base della loro ideologia. Per i comunisti il riscatto economico delle masse è l’obiettivo dichiarato ed è un obiettivo misurabile, un obiettivo che a distanza di anni misura il fallimento di un modello. Invece per gli estremisti islamici l’instaurazione del loro regime è il fine stesso delle loro azioni di propaganda e di violenza.

Churchill dichiarò una volta che, se Hitler avesse invaso l’inferno, ci si doveva alleare con il diavolo; in fondo il ragionamento dei no-global è analogo: chiunque combatte gli USA è loro alleato, quindi vanno bene anche i Talebani o i terroristi che uccidono i nostri carabinieri in Iraq.
Tornando allo slogan ed a Che Guevara possiamo dire, parafrasando Morpheus, che alla Storia non manca il senso dell’ironia: il Comandante Guevara, fiero oppositore della civiltà del business e del marketing, è diventato un’icona, un logo per t-shirt, i suoi epigoni odierni non sono da meno, fieramente contrari alla globalizzazione omologatrice, sono però curiosamente tutti uguali, hanno un look inconfondibile, curato nei dettagli ed assolutamente internazionale, dall’America, all’Europa si riconoscono immediatamente.

Un’altra somiglianza li lega al loro modello: anche lui promuoveva a parole grandi ideali, pace, giustizia, ma pochi fatti e nessuna idea da rendere concreta; certo lui ha fatto la guerra, cosa che per i pacifisti di oggi ha un grande valore, ma il contributo bellico in cui si è distinto maggiormente è stato quello di infierire su prigionieri inermi, imitato oggi da quelli che impiccano inoffensivi fantocci durante le manifestazioni.

Un pregio glielo riconosco: vanno in piazza col volto coperto, ma mostrano a tutti senza ipocrisia la faccia di un’ideologia che giustifica la violenza e l’intolleranza. E’ il volto moderno di un filo ininterrotto di odio che percorre la nostra storia italiana da decenni e che è sempre vivo. Eppure è una violenza sterile, perché è ormai un distruggere senza avere poi nulla da costruire in alternativa. Sono in definitiva comportamenti infantili fuori tempo massimo, questi cortei ripetitivi sembrano una stanca recitazione, sono il mito del ’68 cristallizzato e continuamente riproposto all’infinito, come fanno i dannati nei gironi dell’inferno dantesco. Il lancio degli oggetti, il rogo delle effigi dei nemici, sono ormai riti, esorcismi reiterati, forse per assicurare al mondo ed a sé stessi di esserci ancora, di essere vivi. Però questa ideologia neomarxista che muove i cortei no-global esiste solo a metà: non c’è più il fare, non si lotta a favore di qualcosa, sa esistere solo al negativo, contro qualcosa o qualcuno. Ha bisogno di un nemico, di un governo, di un presidente, ha bisogno delle forze dell’ordine, ha bisogno di simboli da odiare, di bandiere altrui da bruciare perché non ne ha più di proprie da sventolare, ha bisogno delle guerre degli altri. Nomen omen dicevano gli antichi, il destino è racchiuso nel nome, si chiamano gruppi antagonisti, quindi hanno bisogno di noi per esistere, ma noi, invece, di loro possiamo farne volentieri anche a meno.

Siamo in serie A. Forza Genoa.

Il Genoa è tornato in seria A, siamo in A dopo 12 anni ed è una gioia festosa che esplode incontenibile perché repressa per troppo tempo e soprattutto nelle ultime due stagioni quando, dopo essere stati in A per un giorno, ci siamo ritrovati in C. Ma forse è una gioia ancora più grande per i ragazzi più giovani che il Genoa in A non lo hanno mai visto. Io invece mi ricordo l’ultima volta che salimmo in A, era il 1989 era il Genoa di Franco Scoglio, ricordo il treno dei tifosi che, di ritorno da Pisa, in ogni stazione del Levante veniva accolto da una piccola folla pronta a fare baldoria insieme.

Questa volta invece l’appuntamento con il destino è stato a Marassi: Genoa-Napoli all’ultima di campionato, due tifoserie gemellate che devono assistere ad una sfida che potrebbe privare la propria squadra della promozione diretta, ma i piedi buoni di capitan Allegretti trasformano un calcio di punizione, la Triestina pareggia a Piacenza e così rossoblu e azzurri possono esultare insieme. Ero solo un bambino ma mi ricordo bene la partita del gemellaggio nel 1982. Era un calcio diverso, c’era “ Tutto il calcio minuto per minuto” alla radio, con le voci inconfondibili dei radiocronisti, c’era 90° minuto, c’erano le figurine panini e si poteva imparare tutte le formazioni a memoria perché le rose erano piccole e c’erano 11 titolari e poi le riserve; c’era il mercoledì di coppa con le squadre italiane che facevano catenaccio in trasferta per strappare lo 0-0
e poi il ritorno in casa a cercare di ribaltare il risultato, le partite con le grandi europee erano rare e quindi appuntamenti imperdibili. Devo ammettere che oggi il calcio non mi emoziona più come allora, forse perché è cambiato o forse perché sono cambiato io; ma chi è nato e vissuto nell’era delle partite in tv tutte le sere non può apprezzare la differenza ed anche gli insulsi gironi a 5 squadre della coppa uefa forse sembrano una cosa normale. Per loro sono contento perchè una gioia collettiva come quella di una promozione è un’emozione bellissima, di quelle che non ti scordi mai.

Poi ci sono gli inguaribili, perché essere genoano spesso è una malattia, qualcuno dei miei amici più cari lo è, loro, nonostante tutto, dopo anni e anni continuano a soffrire, s’incazzano, godono in modo viscerale, come anch’io facevo qualche anno fa.

Comunque il Vecchio Grifone non sceglie mai strade facili e per la promozione ha scelto l’anno più difficile, un’annata di B irripetibile, una B che sommava più scudetti della A e che verrà ricordata per la presenza della Juventus, ma che avrebbe tante storie da raccontare, come ad esempio le sfortunate rimonte del Brescia e dell’Arezzo, il crollo del Bologna nel girone di ritorno, l’ottimo campionato della neopromossa Rimini; lo strano campionato del Mantova che in casa ha battuto tutte le prime tre, ma che non avrebbe partecipato neppure ai playoff, se si fossero disputati. Noi ce lo ricorderemo come il campionato del Genoa di Gasperini; due anni fa era stato il Genoa di Milito a dominare il campionato, quest’anno invece, senza nessun giocatore di quel calibro è l’allenatore a caratterizzare la squadra, una squadra che è stata capace di farci vedere in più occasioni un gioco spettacolare da stropicciarsi gli occhi.

Finalmente quest’estate potremo volare con la fantasia, sognare l’Europa, aspettare i colpi di Preziosi. Forza Grifone l’appetito vien mangiando.

sabato 9 giugno 2007

EMBEDDED di Lao Petrilli

Lao Petrilli si reca in Iraq, si aggrega ad una compagnia di marines e li segue come cronista di guerra, da cui il nome del suo libro: embedded.

Il libro si sviluppa come un diario: la data, gli avvenimenti. Poco spazio a commenti, approfondimenti, opinioni; molta cronaca invece. Vengono descritti i luoghi e le persone incontrate. Una guerra coinvolge tutto un paese, milioni di persone ed ognuna ha la sua storia, la sua versione, la sua interpretazione; Petrilli ci fornisce quella della sua esperienza, racconta gli scomodi spostamenti fino a quando raggiunge Ramadi, nella zona sunnita, dove i guerriglieri che si oppongono agli americani sono per lo più militanti baathisti, persone che dipendevano dal regime di Saddam e che cercano di sabotare il nuovo Stato, dove non hanno un posto, o di negoziare con esso per riavere qualche privilegio. Il sottotitolo del libro “a caccia di terroristi con i marines” rende bene l’idea delle operazioni cui assiste l’autore. E’ infatti una guerra strana quella descritta, una guerra non combattuta, ma sotterranea: un’allerta notturna mette in moto la compagnia di marines, vengono circondati degli edifici, parte l’assalto.

La dimensione umana del contenuto, spesso infatti vengono citati i nomi, descritti i volti e le esperienze dei soldati incontrati, rende talvolta angosciante l’atmosfera di pericolo in cui muovono; il pensiero della morte aleggia sempre in sottofondo e talvolta si materializza come, ad esempio, durante una cerimonia funebre nel deserto: “Quando un ufficiale dà l’attenti, T.R. White, il cappellano, accarezza le corde della sua chitarra e intona “Fire and rain” una struggente canzone di James Taylor che parla di morte e redenzione. Fa: “ho visto fuoco e pioggia, ho visto giorni di sole credendo che non sarebbero mai finiti. Ho visto tempi solitari non riuscendo a trovare amici, ma ho sempre pensato che ti avrei rivisto ancora”. Immobili, ma piangono tutti.”

domenica 3 giugno 2007

Darwin tra demonio e santità

Darwin demonio o santità?
Il dibattito serrato che negli USA contrappone creazionisti ed evoluzionisti tira costatntemente in ballo Darwin quasi sempre a sproposito.
Vorrei chiarire alcuni punti base: Darwin era uno studioso del XIX secolo che ha elaborato una teoria per cercare di spiegare alcuni fenomeni naturali che aveva osservato, la sua teoria è stata quindi enunciata senza tutta la mole enorme di conoscenze che la scienza ha messo da parte negli ultimi cento anni, in modo particolare nulla poteva sapere del DNA, del modo in cui il patrimonio genetico maschile e femminile si combinano per generare un nuovo essere, nè di come i geni mutano, nè di come il clima cambi più o meno ciclicamente nel tempo e così via...
Considerare Darwin responsabile degli stermini di massa nazisti e comunisti del XX secolo, affermando che a lui si ispiravano, applicando una selezione ed eliminazione di alcune categorie ritenute inadatte, mi sembra grottesco, intanto perchè quando una tirannide vuole eliminare delle categorie di persone può addurre qualunque tipo di giustificazione, tanto è vero che i genocidi sono avvenuti anche prima che Darwin venisse al mondo, senza bisogno della sua teoria. La stessa cosa vale per l'infanticidio, reso famoso da Sparta ma in realtà praticato in tutte le epoche ed in ogni luogo.
Ma a parte questo il punto debole della diatriba è un altro e cioè che la teoria dell'evoluzione, giusta o sbagliata che sia, non ha nulla che vedere con la religione, né è in contrasto con essa. Stabilire se gli esseri viventi mutano nel tempo e se queste mutazioni costituendo vantaggi o svantaggi in termini di sopravvivenza ne determinano il successo come specie è un problema che fondamentalmente attiene la ricerca scientifica; stabilire invece se dietro a questi fenomeni vi sia un disegno divino è tutta un'altra questione che attiene invece alla religione o alla filosofia. Voler utilizzare la ricerca scientifica per avvalorare le proprie scelte religiose o il proprio ateismo è un'operazione scorretta ed alla fine vana.
Per rispetto della religione lasciamola fuori dalle polemiche tra accademici, Perchè esiste il mondo, siamo stati creati per uno scopo, forse per un'altra vita dopo la morte? Non sviliamo le grandi domande che si pone l'uomo da sempre, riducendole a questioni da verificare in laboratorio, quando invece sono questioni da sviluppare, nel confronto con gli altri e con la propria coscienza.
Per rispetto della scienza non utilizziamola come arma di proselitismo; se Dio verrà un giorno pesato, tracciato, dimostrato allora non sarebbe Dio, allora esisterebbe un altro essere al di sopra che esula da queste categorie e quello sarebbe Dio, perché secondo me Dio, dall'uomo, può solo essere amato, odiato, creduto, invocato, cercato e non dimostrato.