sabato 2 maggio 2009

"Il segno del padre" di Paolo Ferliga



Il segno del padre cerca di analizzare l’importanza della figura paterna nella società, nella famiglia, nella formazione di ciascun individuo e dei danni che derivano dalla sua mancanza. Se proprio devo classificarlo è un libro di psicologia, quindi un argomento un po’ inconsueto per me, ma che ho profondamente apprezzato per l’alto valore morale dei concetti che cerca di trasmettere.

L’assenza di una figura paterna impedisce ai figli di crescere, restano individui incompiuti, per sempre adolescenti. Questa assenza è grave a livello famigliare, ma l’autore denuncia l’oscuramento e l’abdicazione dal proprio ruolo delle figure paterne anche a livello sociale. I valori connessi alla autorità, alla virilità vengono sempre più connotati in modo negativo e le figure che dovrebbero incarnarle nella società (il maestro, l’allenatore….) o non sono all’altezza o non sono in condizione di esprimerli. I ragazzi, così come i bambini, hanno bisogno di insegnamenti, ma l’unica forma di insegnamento efficace è l’esempio, mille parole contano meno di un fatto, è con il proprio comportamento che gli adulti indicano la strada ai più giovani, la mancanza di carattere, di coerenza e di disciplina non si può sostituire con un libretto di istruzioni.

Questa liquidazione della figura paterna implica la fine della società verticale, alla quale si è sostituita una società orizzontale, dove diventano esclusive le relazioni orizzontali, tra fratelli, sorelle, compagni.

L’autorità paterna aiuta a formare una scala di valori e di comportamenti che consentono di giudicare e giudicarsi. Consente a ciascuno di sviluppare un giudizio interiore che aiuta l’individuo ad avere un comportamento consapevole, non a seguire come una banderuola il flusso prevalente, con questa mancanza si sostituisce il proprio giudizio con quello dei propri pari, altrettanto smarriti e con il pubblico consenso. Questo meccanismo concede ai mass media un potere molto forte, di influenzare i comportamenti, di indicare il modello prevalente da seguire. All’esempio costituito dai genitori si sostituisce qualche modello preconfezionato, prodotti di consumo, marchi di successo.

Quando tutto questo degenera si arriva ai fenomeni di bullismo su cui ciclicamente si concentra l’attenzione dei mezzi di comunicazione.

Mancanza di ordine, di disciplina, di autocontrollo, ma soprattutto di senso dell’ onore e di coraggio, sono gli aspetti più evidenti di questo fenomeno. In tanti contro uno solo, inerme, senza che nessuno ad un certo punto abbia il coraggio di dire: “adesso basta”, eppure tra i tanti ci sarà forse uno con un po’ più di sale in zucca, ma la codardia prevale, hanno paura di andare contro il gruppo, di distinguersi, di essere individui, cioè di essere uomini.

Scelgono prede facili, su cui si può non solo prevalere ma anche infierire, nessuno di questi se la prende con lo spacciatore di turno, probabilmente perché sono loro stessi drogati, altro chiaro indizio di mancanza di personalità.

Pensare con la propria testa e fare la cosa giusta, concetti che spetta al padre insegnare al figlio, ma indubbiamente non è facile in un ambiente dove prevale il lassismo, il perdonismo, il buonismo dove il concetto di colpa viene sempre svicolato, si giustifica tutto: se uno sbatte contro il muro con l’auto è perché la discoteca chiude troppo tardi, se tira le monetine è colpa dell’arbitro che non ha visto il rigore, siamo la società degli alibi, ma come ebbi a dire una volta ad un amico, a volerli cercare, gli alibi si trovano sempre! C’è sempre una buona scusa per fare o non fare qualcosa, ma ciò che conta è la volontà di fare o non fare e non le scuse che si accampano.



Nelle radici più profonde della nostra cultura, il rapporto tra padre e figlio è ben rappresentato da molte figure: Enea e Anchise, figli come Telemaco, padri come Priamo e Peleo, e soprattutto Ettore, il padre per eccellenza, il guerriero più forte, che spaventa il figlio con la tenuta guerra, ma che spogliatosi dell’armatura diventa il più tenero dei genitori, non c’è in questo esempio antico alcuna tensione tra questi atteggiamenti, l’uomo può mostrare i propri sentimenti con naturalezza, non ha alcun timore a mostrarsi tenero perché è capace di essere forte e duro quando il dovere lo richiede; oggi, invece, spesso la maschera del duro serve per nascondere un vuoto, una mancanza di sostanza.
Come per gli altri animali, anche per l’uomo la paura genera aggressività.

Gli antropologi ci spiegano che la specie umana è l’unica, tra i primati, in cui il maschio sviluppa il senso di paternità, i nostri progenitori già sapevano che il legame tra padre e figlio è profondissimo, oggi sembra che se ne possa fare a meno, come si vede nella giurisprudenza relativa agli affidi in caso di divorzio, ma io non la penso così. C’è bisogno di padri, di uomini, di maschi.

Qualche giorno fa in un’intervista Hugh Jackman ha dichiarato: “Una volta la rappresentazione della mascolinità era ben diversa. Nella scultura, nella pittura, gli uomini erano grandi e forti, con grandi pance per ridere di cuore. La loro fisicità era la trasposizione di una solidità interiore. Oggi sulle riviste di moda gli uomini sono tutti anoressici, pallidi, stretti nelle spalle. Sembrano sempre costipati. E quando parlano sembra che squittiscano. È l’esteriorizzazione della loro debolezza. Sono diventati femmine.”
In modo un po’ rozzo, ma efficace l’attore australiano ha messo in luce questo aspetto del problema e mi fornisce lo spunto per chiarire il concetto, come lo vedo io: ognuno è libero di esprimere come meglio crede la propria personalità, di atteggiarsi, di vestirsi come vuole, ma coloro che per lavoro creano immagini, mode e modelli non devono avere la pretesa di indottrinarci, di imporre anche a noi la loro visione, né di propagandarla come il progresso, un progresso al quale preferisco i vecchi, vecchissimi esempi di cui sopra.