martedì 24 gennaio 2012

Liberalizzazioni inutili, alternative mancanti

Puoi lubrificare il motore quanto vuoi, ma con una cinquecento non puoi trainare il rimorchio di un camion.

Sono favorevole in generale a tutto ciò che rimuove gli ostacoli a chi vuole intraprendere un’attività, ma applicare all’Italia le liberalizzazioni appena varate, non sortirà effettivi tangibili fino a quando permane il peso insostenibile di uno Stato che occupa metà dell’economia italiana. Non entro nel merito dei singoli provvedimenti, alcuni dei quali discutibili, altri liberalizzano solo di nome, in coerenza con un’impostazione dirigista, la stessa che viene applicata ad esempio dalle autorità antitrust italiane ed europee; l’impostazione per cui si dice di voler salvaguardare la concorrenza ma in realtà si vuole stabilire chi, cosa, quando e come produrre.

Ma questo ha poca importanza, ciò che conta è che il sistema italiano non regge la struttura statale che si è dato.

Chi invece osteggia per principio le liberalizzazioni e vaneggia circa la necessità di nuovi New Deal dovrebbe riflettere su due fatti:

1 – L’unico vero successo del New Deal fu di immagine, o di marketing se preferite, cioè far credere che abbia funzionato, cosa non vera.

2 – Tornare a quel modello sarebbe in effetti un successo, sapete perché? Perché all’epoca lo Stato pesava molto meno di oggi! Sia in Europa che negli Stati Uniti.

In realtà è lo stesso sviluppo tecnologico ed economico a consentire l’espansione della spesa pubblica. Oggi un lavoratore italiano lavora fino al 24 giugno per lo Stato e poi per sé e la propria famiglia. Nei tempi antichi i signori non potevano pretendere tanto dai propri sudditi e servi perché altrimenti li avrebbero condannati a morire di fame. I compenso i signori erano pochi e i servi tanti, quindi i padroni potevano contare comunque su ottime entrate, oggi la platea di coloro che vivono di spesa pubblica è molto più estesa e questo pone problemi di riforma ben maggiori.

Detto ciò i gusti individuali sono insindacabili. Comprendo bene che si possa desiderare un ruolo ancora maggiore dello Stato a prescindere da qualunque controindicazione, magari arrivando fino all’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e stipendi uguali per tutti. Legittimo desiderarlo, auspicabile però trovare nuovi mezzi, nuove idee per conseguire il fine. Rimanere ancorati alle partecipazioni statali pentapartitiche, all’IRI fascista, ai soviet, alla lotta di classe di ottocentesca memoria, come ispirazioni per il ruolo dello Stato nell’economia nel XXI secolo, mi sembra una mancanza sconcertante di idee innovative.

lunedì 16 gennaio 2012

La vera colpa delle agenzie di rating

Dallo scoppio della crisi si fa un gran parlare delle agenzie di rating, ma di tutte le accuse che vengono mosse a Standard & Poor’s e simili, manca la più importante: non aver fatto l’abbassamento del rating prima e con prima intendo anni fa. Molti economisti denunciavano l’insostenibilità dei debiti e del sistema finanziario, eppure le agenzie di rating confermavano l’affidabilità assoluta degli emittenti. L’hanno fatto per incapacità o per interesse? Probabilmente per entrambe le ragioni. Sia come sia, non sono state in grado di fare il proprio lavoro, così come ampiamente dimostrato in passato (caso Lehman Brothers su tutti), declassare oggi è come fare un pronostico su una partita durante i minuti di recupero: sono capaci tutti e ci si azzecca quasi sempre.

Queste agenzie operano in regime di oligopolio, sancito talvolta dalla legge, operano in conflitto di interessi, perché non possono essere chiaramente indipendenti da coloro che ne sono proprietari e arrivano sempre in ritardo. Però tutto ciò non può essere una scusa per dire che i paesi dell’euro meritino voti migliori! Si può affermare semmai che i voti riferiti ad altri sono ancora troppo generosi.

C’è un altro aspetto dell’ultimo declassamento che non viene colto: potrebbe anche essere un segnale che il peggio è passato. Supponiamo che chi può influenzare i rating, in questi mesi si sia alleggerito il portafoglio titoli vendendo bond italiani, spagnoli, francesi. Se questi grandi investitori ritengono che tutto sommato non si arriverà al default, quale mossa migliore che un doppio declassamento per ricomprarsi i titoli a prezzo più basso e (in tempi di tassi vicini allo zero!) incamerare ricche cedole.

E’ una ricostruzione di fantasia, ma più logica di tanti improbabili complotti che si celerebbero dietro la crisi. I ricchi e potenti hanno uno scopo principale: guadagnare. Altre finalità, come distruggere l’Euro o cambiare governi sono tuttalpiù effetti collaterali, magari a volte graditi e auspicati, ma sui quali non credo qualcuno sia disposto a rischiare il proprio (ingente) patrimonio.

Intendiamoci, è ovvio che i complotti esistano, ma di solito operano cogliendo le occasioni che si presentano. Sicuramente il governo Berlusconi dava fastidio a qualcuno, ma pensare che si possa creare dal nulla la crisi finanziaria o la rivolta libica per abbatterlo non è credibile, che si sia approfittato degli eventi per dargli una spinta, fa parte del gioco.

Viene spesso riportata la Rivoluzione Arancione come esempio di rivoluzione creata a tavolino, ma le Rivoluzioni non si creano a tavolino, ci devono essere delle precondizioni e poi si possono appoggiare, incoraggiare, alimentare ma non inventare.

Comunque, complotti o no, le agenzie di rating non sono credibili. Purtroppo, i politici che le criticano, nemmeno.

venerdì 13 gennaio 2012

La sovrapproduzione (di minchiate) all'origine della crisi


La crisi che stiamo vivendo viene interpretata da ciascuno secondo il proprio credo, per cui ci troviamo di fronte a spiegazioni tra loro opposte: ad esempio c’è chi dice che quando le Banche Centrali obbedivano alla politica e stampavano soldi a tutto spiano le cose andavano meglio, c’è chi dice che proprio l’abuso nell’offerta di moneta abbia generato la crisi (io propendo più per la seconda ipotesi ma non è di questo che tratto oggi). C’è chi invece si concentra sugli aspetti produttivi e quindi afferma che la scarsità delle risorse sta alla base del declino, chi invece afferma che la crisi nasce perché si produce troppo. Mi voglio soffermare su quest’ultimo aspetto. Produrre troppo è un concetto vago: che cosa significa troppo? Che nessuno vuole un certo prodotto o che il prodotto è troppo caro e quindi non lo si può comprare? In ogni caso se c’è un eccesso di produzione vuol dire che ci sono stati investimenti sbagliati e questo è insito nella natura del capitalismo: c’è chi azzecca le previsioni e chi no. Piuttosto sono discutibili le cure che di solito vengono consigliate in questi casi.

Faccio un esempio concreto: apro una macelleria, ma lo stesso giorno tutti, eccetto uno, diventano vegetariani. C’è una sovrapproduzione di carne, a questo punto devo cambiare e vendere zucchine fritte, a meno che l’unico mangiatore di carne non sia un riccone ed allora posso provare a far diventare la carne un bene di lusso e vendere le fettine al prezzo di un Cartier. Se però lo Stato mi incentiva a tenere aperto, la sovrapproduzione continua. E’ quello che accade nel settore dell’automobile. L’intervento dello Stato è come l’irrigazione del deserto, se il flusso si interrompe la pianta muore. C’è anche un altro problema: le risorse che eroga sono prese da un’altra parte, che viene impoverita. In pratica si penalizza ciò che funziona e si perpetua quello che non funziona.

Questa ricetta che potremmo chiamare Keynesiana (o se preferite del “dai la cera togli la cera”) cerca di rimediare alla presunta carenza di consumi (peraltro dovrei essere io a decidere quando cambiare macchina e non il Ministero dello Sviluppo) “stimolandoli” in vario modo. Ma paradossalmente quando lo Stato esce dai propri compiti naturali ed interviene nell’economia induce sistematicamente sovrapproduzione perché fornisce beni e servizi non richiesti e dei quali non si sa quale sia il reale livello di domanda.

Un’altra ricetta era molto in voga negli anni passati ma ha ancora molti estimatori ed è la soluzione di Marx. Lui si concentra non tanto sui consumatori, quanto sui produttori, i quali non sanno prevedere correttamente il futuro e quindi creano le crisi economiche. Su questo potrei anche essere d’accordo, solo che la sua soluzione non mi convince molto. In pratica si dovrebbe fare così: un gruppo di persone molto dotate, chiamate avanguardia, oppure dirigenti del partito dei proletari, o con altri sinonimi del genere, sono così bravi che riescono a decidere meglio degli imprenditori cosa e quanto produrre, così non ci sono più crisi.

Non mi convincono due cose: se uno è così bravo a indovinare il futuro potrebbe fare direttamente l’imprenditore di successo e diventare ricco (e poi siccome è comunista divide con gli altri tutto quello che ha guadagnato). In questo modo non perde tempo a discutere con gli altri dell’ufficio politico, che magari non sono tutti geniali come lui.

L’altra cosa che non mi convince è questa: i personaggi superdotati dell’ufficio politico sanno che cosa è bene per tutta la popolazione e provvedono a soddisfarla, ma se per ipotesi sbagliassero qualcosa? Chi glielo dice, chi li fa smettere? Cioè: il macellaio di cui sopra deve cambiare mestiere altrimenti muore di fame, questi invece anche se sbagliano possono tranquillamente andare avanti, soprattutto se, assieme a tutte le attività economiche, queste supermenti collettiviste controllano anche polizia, esercito, sistema giudiziario…. In pratica: se alzi la mano e dici: ehi, secondo me si dovrebbe fare in un altro modo e ti becchi una pallottola….

Insomma la sovrapproduzione ha delle responsabilità nella crisi attuale, ma più che la sovrapproduzione di beni, la sovrapproduzione di idee contorte e convinzioni che non reggono alla prova dei fatti.