un pò di libri con annesso mio voto:
Edward Gibbon - Declino e caduta dell'Impero romano *****
Ross E. Dunn - Gli straordinari viaggi di Ibn Battuta ****
Jean-Paul Roux - Tamerlano ****
Raymond McNally; Radu Florescu - Storia e mistero del Conte Dracula ****
Basil Henry Liddell Hart - Storia militare della Seconda Guerra Mondiale ****
Gunter Grass - Sbucciando la cipolla ***
Sergio Valzania - Wallestein ***
Michael Coe - I Maya ***
Milton Friedman - Capitalismo e Libertà ****
Petro Ichino - A che cosa serve il sindacato ***
Henri Pirenne - Le città del Medioevo **
Steven Pressfield - I venti dell'Egeo ***
Antonio Martino - Milton Friedman. Una biografia intellettuale *****
Mario Attilio Levi - Nerone e i suoi tempi ***
Paolo Cammarosano - Storia dell'Italia medievale. Dal VI al XI secolo. **
Jacques Le Goff - Alla ricerca del Medioevo **
Nussbaum, Rusconi, Viroli - Piccole patrie, grande mondo ****
Svetonio - Vite dei dodici Cesari ****
Stanley Wolpert - Storia dell'India ***
Edwin Reischauer - Storia del Giappone ***
Piero angela - La sfida del secolo ****
Geminello Alvi - Il secolo americano **
Raffaele De Marinis, Giuseppe Brillante - Otzi. L'uomo venuto dal ghiaccio **
Peter Heather - I Goti ***
Paul Ginsborg - L'Italia del tempo presente ****
Oriana Fallaci - La rabbia e l'orgoglio ****
Henri Michel - La Seconda Guerra Mondiale ****
Franco Cangini - Storia della Prima Repubblica *****
Bruno Zevi - Concetti di una controstoria ***
Bruno Zevi - Preistoria. Alto Medioevo. **
Mario Cataldo - Storia dell'industria italiana **
Napoleone Colajanni - Storia della banca in Italia da Cavour a Ciampi. **
Umberto Cerroni - Il pensiero politico italiano ****
Michele Prospero - Il pensiero politico della destra ***
Ralph Schor - L'Europa tra le due guerre **
Mario Francini - Storia dei presidenti americani **
Roberto Ivaldi - Storia del colonialismo **
Adriano Guerra - La Russia postcomunista **
Serena Foglia - Il sogno e le sue interpretazioni **
Cecilia Gatto Trocchi - Le sette in Italia **
Paolo Santangelo - Storia della Cina ***
mercoledì 26 novembre 2008
lunedì 17 novembre 2008
Mostra canina
Ho visitato ieri l'Esposizione Canina organizzata dal Gruppo Cinofilo Genovese, ho potuto ammirare moltissimi cani, cito solo, tra i tanti, i bellissimi canilupo cecoslovacchi, i cani da montagna dei Pirenei, i mastini tibetani. C'era una nutritissima presenza di border collie (che mi ha fatto sorgere qualche dubbio sulla paternità del mio, che è più alto e meno peloso di tutti quelli che visto, ma non importa...). Devo dire che anche il cane corso fa la sua magnifica figura, ma i cani per i quali ho avuto veramente un debole sono il pastore dell'Asia Centrale e la femmina di pastore del Caucaso, dei quali riporto le foto e che l'allevatore (Baldan) mi ha permesso di avvicinare e portare al guinzaglio. Due animali veramente magnifici, che ti trasmettono una sensazione ancestrale di vicinanza alla natura.
domenica 16 novembre 2008
La matematica è un'opinione
La matematica non è un’opinione, ma sui giornali sì. Capita spesso di leggere articoli dove si scambiano milioni per miliardi o comunque dove i conti non tornano. Ultimo esempio di questi giorni: è stata annunciata una scoperta da parte di ricercatori coreani di un sistema per allungare la vita delle batterie al litio. Leggo nei vari articoli che la durata diventa otto volte quella attuale, nei titoli degli stessi articoli si legge però che la durata è aumentata del 90%, oppure, in altri dell’800%.
Mi sembra chiaro che se la durata attuale va moltiplicata per 8 allora vuol dire che è aumentata del 700%, mi sembra altresì chiaro che anche i quotidiani maggiori quando riportano le notizie, soprattutto quelle provenienti dall’estero, fanno copia e incolla e tanti saluti. Va bene l’errore di distrazione, tutti ne facciamo, ma se non si trova neanche una percentuale corretta tra tutti quelli che riportano la notizia, allora l’errore non è di distrazione ma è dovuto al fatto che la matematica, oggi più che mai, è diventata un’opinione.
Mi sembra chiaro che se la durata attuale va moltiplicata per 8 allora vuol dire che è aumentata del 700%, mi sembra altresì chiaro che anche i quotidiani maggiori quando riportano le notizie, soprattutto quelle provenienti dall’estero, fanno copia e incolla e tanti saluti. Va bene l’errore di distrazione, tutti ne facciamo, ma se non si trova neanche una percentuale corretta tra tutti quelli che riportano la notizia, allora l’errore non è di distrazione ma è dovuto al fatto che la matematica, oggi più che mai, è diventata un’opinione.
lunedì 27 ottobre 2008
La scuola che non c'è
Ci sono molte cose, nell’Italia di oggi, che rappresentano una grossa fregatura per i giovani. Una delle principali è la scuola. Se lo sapessero non la difenderebbero, non la occuperebbero, non seguirebbero i professori indottrinatori, gli unici che ci guadagnano nella situazione attuale di un paese in declino.
La scuola uscita dal ’68 è la più mostruosamente classista del mondo, infatti non fornendo una preparazione volta al mercato non dà nessuna possibilità a chi vuole emergere. La situazione a cui è necessario porre rimedio è la seguente: scuola e università, per ragioni ideologiche, sono state tenute separate e slegate dal mondo dell’impresa con il risultato che i titoli di studio, sul mercato del lavoro, valgono zero! Leggetevi le offerte di lavoro, vi sembra che la scuola stia preparando per questo? Certo l’Università a basso costo per tutti è una bella cosa per la cultura, ma i figli dei lavoratori (categoria alla quale appartengo) hanno studiato per avere un futuro lavorativo, cosa che l’Università italiana non garantisce, quindi chi ha già un posto che lo aspetta bene, per gli altri c’è il pezzo di carta inutile. Volete un altro dato di fatto in proposito: nonostante l’altissimo tasso di abbandono universitario, i laureati italiani sono i meno pagati di tutta Europa, (i professori non lo so, di sicuro sono i più inamovibili del mondo).
Non solo la scuola è inutile per cercare lavoro, ma fallisce anche miseramente nello scopo di fare cultura: gli studenti italiani sono gli ultimi nelle classifiche internazionali, cioè sono mediamente i più ignoranti, soprattutto in matematica. Infatti non capiscono una cosa elementare: da 39 anni lo Stato italiano spende più di quello che incassa. Ogni anno i soldi che mancano li chiede in prestito, cioè fa dei debiti, che qualcuno dovrà pagare. Quindi è facile protestare per i tagli, ma proprio loro che pagheranno un conto salato per i debiti fatti fino ad oggi, chiedono di continuare a farne? E’ quantomeno bizzarro. Certo l’istruzione è importante, ma lo è anche la salute, la giustizia e così via, ma se vogliamo continuare in futuro ad avere istruzione, salute, giustizia i conti bisogna metterli in ordine.
Ci si lamenta sempre dei ricercatori che devono andare all’estero, benissimo allora vuol dire che all’estero le cose funzionano meglio, applichiamo quello che fanno all’estero, applichiamolo a tutti studenti e professori e sapete cosa succederebbe: cortei, occupazioni, slogan. Perché il dramma è questo: quello che più risulterebbe utile e ciò che più ferocemente viene avversato.
La scuola, a partire dalle superiori, dovrebbe dare la possibilità allo studente di scegliere se indirizzarsi verso un percorso puramente teorico o di inserimento nel mondo del lavoro. Questo approccio dovrebbe essere ancora più marcato a livello universitario. Nel percorso finalizzato ad uno sbocco lavorativo, l’Università dovrebbe lavorare a stretto contato con il mondo delle imprese, per progettare i corsi di studio e consentire agli studenti, ad esempio attraverso gli stage, di maturare esperienze utili.
Questi semplici concetti riguardano gli studenti in età della ragione, certamente non sono rivolti a quei poveri bambini delle elementari che cantavano il coretto contro il ministro cattivo, a loro dico solo: pensate a giocare e a divertirvi che per intristirvi con la politica c’è tempo.
La scuola uscita dal ’68 è la più mostruosamente classista del mondo, infatti non fornendo una preparazione volta al mercato non dà nessuna possibilità a chi vuole emergere. La situazione a cui è necessario porre rimedio è la seguente: scuola e università, per ragioni ideologiche, sono state tenute separate e slegate dal mondo dell’impresa con il risultato che i titoli di studio, sul mercato del lavoro, valgono zero! Leggetevi le offerte di lavoro, vi sembra che la scuola stia preparando per questo? Certo l’Università a basso costo per tutti è una bella cosa per la cultura, ma i figli dei lavoratori (categoria alla quale appartengo) hanno studiato per avere un futuro lavorativo, cosa che l’Università italiana non garantisce, quindi chi ha già un posto che lo aspetta bene, per gli altri c’è il pezzo di carta inutile. Volete un altro dato di fatto in proposito: nonostante l’altissimo tasso di abbandono universitario, i laureati italiani sono i meno pagati di tutta Europa, (i professori non lo so, di sicuro sono i più inamovibili del mondo).
Non solo la scuola è inutile per cercare lavoro, ma fallisce anche miseramente nello scopo di fare cultura: gli studenti italiani sono gli ultimi nelle classifiche internazionali, cioè sono mediamente i più ignoranti, soprattutto in matematica. Infatti non capiscono una cosa elementare: da 39 anni lo Stato italiano spende più di quello che incassa. Ogni anno i soldi che mancano li chiede in prestito, cioè fa dei debiti, che qualcuno dovrà pagare. Quindi è facile protestare per i tagli, ma proprio loro che pagheranno un conto salato per i debiti fatti fino ad oggi, chiedono di continuare a farne? E’ quantomeno bizzarro. Certo l’istruzione è importante, ma lo è anche la salute, la giustizia e così via, ma se vogliamo continuare in futuro ad avere istruzione, salute, giustizia i conti bisogna metterli in ordine.
Ci si lamenta sempre dei ricercatori che devono andare all’estero, benissimo allora vuol dire che all’estero le cose funzionano meglio, applichiamo quello che fanno all’estero, applichiamolo a tutti studenti e professori e sapete cosa succederebbe: cortei, occupazioni, slogan. Perché il dramma è questo: quello che più risulterebbe utile e ciò che più ferocemente viene avversato.
La scuola, a partire dalle superiori, dovrebbe dare la possibilità allo studente di scegliere se indirizzarsi verso un percorso puramente teorico o di inserimento nel mondo del lavoro. Questo approccio dovrebbe essere ancora più marcato a livello universitario. Nel percorso finalizzato ad uno sbocco lavorativo, l’Università dovrebbe lavorare a stretto contato con il mondo delle imprese, per progettare i corsi di studio e consentire agli studenti, ad esempio attraverso gli stage, di maturare esperienze utili.
Questi semplici concetti riguardano gli studenti in età della ragione, certamente non sono rivolti a quei poveri bambini delle elementari che cantavano il coretto contro il ministro cattivo, a loro dico solo: pensate a giocare e a divertirvi che per intristirvi con la politica c’è tempo.
lunedì 20 ottobre 2008
La crisi del secolo
Non ricordavo di aver mai visto perdere gli indici di borsa con doppia cifra. Si potrebbe dire che qui si fa la storia.
Ma com’è che è successo? Perché se non siamo d’accordo sulle cause, di certo si potrebbe anche somministrare la cura sbagliata, potremmo rifare gli stessi errori o peggiorare la situazione. Insomma di chi è la colpa?
Qui entriamo nel campo delle opinioni ed io vi dirò le mie che, se non altro, hanno il pregio di essere disinteressate e sincere e magari cercano anche qualche riscontro empirico. Sì perché dovete sapere che fin quando si resta alle teorie, soprattutto in economia, hanno tutti ragione.
Piccola ulteriore premessa: in economia ogni scelta di ciascuno influenza tutti gli altri, quindi sia nel bene che nel male l’economia mondiale è il risultato del comportamento di tutti gli abitanti del pianeta. Detto questo le scelte di alcuni hanno conseguenze un po’ più profonde di quelle degli altri. Quindi io come primo imputato metto sul banco degli imputati Alan Greenspan.
L’idea di voler influenzare l’economia reale e i corsi delle azioni attraverso i tassi di interesse è sbagliata e pericolosa. Negli USA si è inseguita l’idea di Keynes che lo sviluppo fosse trainato dai consumi e per mantenere alti i consumi valgono tutti i sistemi, dal deficit di bilancio ai tassi vicini allo zero. Quindi debito statale e debiti privati sono serviti per drogare una crescita evidentemente fittizia. Vi è una percezione generalizzata che il denaro facile porti comunque a fasi di sviluppo e di aumento di benessere, ma se poi i prezzi di case e materie prime triplicano, allora forse è una percezione da riconsiderare.
Si è discusso molto sulla scarsa propensione al risparmio degli americani, ma le persone rispondono agli stimoli che ricevono e si adattano all’ambiente in cui vivono. Con un’inflazione al 4% ed i tassi all’ 1% che stimolo al risparmio ci può essere? Mi pare che più di propensione culturale si possa parlare di scelta obbligata. La distruzione del risparmio degli americani mi sembra una grave responsabilità della FED ed è una debolezza strutturale che va modificata. Quindi abbiamo una prima cura alla crisi: gli americani dovrebbero iniziare a risparmiare. Meglio: devono essere messi in condizione di farlo. Quindi la politica monetaria americana deve cessare di essere inflazionistica.
Certo adesso siamo nel mezzo della bufera, bisogna evitare che la crisi travolga, assieme agli insolventi, anche le parti sane del sistema. Inoltre di fatto la crisi ha provocato una stretta creditizia pericolosa per il sistema, non si riesce a valutare l’affidabilità dei soggetti economici, aumenta il rischio di fare credito, i tassi interbancari sono aumentati e così via. Però presto o tardi arriverà il momento della stabilizzazione ed allora la scorciatoia di creare moneta illudendo di creare ricchezza deve essere abbandonata. Spero che sia così, però da sempre, non passa anno che, anche quando l’economia cresce, si trovano dei motivi per considerarsi in emergenza per giustificare politiche interventiste e poco lungimiranti.
Le scorciatoie in economia non funzionano mai. Qualcuno, forse, negli USA aveva pensato che fosse possibile tenere bassa l’inflazione anche con una crescita incontrollata di massa monetaria, importando merci a basso costo dalla Cina. Per un po’ ha funzionato poi, come sempre, gli effetti collaterali si sono manifestati. In parte quindi anche il boom cinese è stato finanziato dai debiti americani, ma non è stato solo questo a drogare la crescita cinese, anche il tasso di cambio artificiale ha fatto la sua parte. Questa crescita ha dato un contributo decisivo per alimentare l’aumento dei prezzi delle materie prime, ecco quindi che l’inflazione, fatta sparire da una parte te la ritrovi in casa. Il commercio internazionale è una cosa buona, ma va fatto a parità di condizioni. Si parla tanto di restrizioni di vario genere, mi sembra che la maggior parte delle idee siano o molto complicate o controproducenti. L’unica regola utile è anche di semplice attuazione: si commercia liberamente con gli Stati che non pongono restrizioni di tipo valutario, cioè lasciano fluttuare il proprio tasso di cambio. Abbiamo così un meccanismo che senza aggravio di costi ed in modo automatico va a sanare gli squilibri che si creano.
Come ho accennato l’aumento delle materie prime è un altro aspetto della crisi ed è quello, peraltro, che ha avuto l’impatto più forte sull’economia reale. La politica monetaria non è estranea a questo aumento, esistono però anche elementi strutturali, soprattutto nel comparto energetico che vanno affrontati. La disponibilità di energia è la prima condizione sine qua non per lo sviluppo economico, se vogliamo progettare il futuro è qui che bisogna lavorare. I Governi in questi giorni sembrano ossessionati dalle Borse e dalla recessione. Ma a parte il fatto che le Borse non obbediscono ai decreti, dobbiamo capire una cosa: le soluzioni a problemi di fondo non arrivano da un giorno all’altro, le migliori riforme sono quelle che dispiegano i propri effetti negli anni. Lo stesso discorso vale per la recessione, fare di tutto per evitare 6 mesi di recessione, magari rinviando solo la resa dei conti, non serve a niente. Più si ritarda la soluzione dei problemi più onerosa sarà la soluzione stessa. Meglio 6 mesi di recessione se però si gettano le basi per una crescita solida per gli anni a venire (l’esempio del Giappone mi sembra significativo).
Il rischio più grosso che corriamo, dicevo, è di non essere d’accordo sulle cause della crisi. Da una parte questo è dovuto a opinioni sinceramente diverse, dall’altra dal fatto che si può approfittare della crisi per gettato discredito sugli avversari politici, per qualcun altro può essere l’occasione per farsi dare un po’ di soldi o consolidare qualche privilegio immotivato.
Anche questa crisi, come tutte, è stata l’occasione per invocare “le regole”. Io posso anche essere d’accordo, però tenendo presente qualche piccolo suggerimento: da che mondo è mondo i migliori regolamenti sono quelli brevi, concisi, precisi. Non servono più regole, bisogna togliere quelle sbagliate e sostituirle. Pensiamo alle leggi italiane: sono migliaia, ovviamente nessuno le conosce, quindi la loro efficacia è minima. Mosè è sceso dal Sinai con 10 comandamenti, poi Gesù si è reso conto che erano comunque troppe da ricordare per l’uomo medio e quindi l’ha ridotte ad una. Non si pretende che i governanti abbiano lo stesso talento di Gesù, però…. Oltre tutto parliamoci chiaro, alla fine succede che c’è qualche nuovo organismo di controllo che serve a piazzare i conoscenti e che per prevenire le crisi ha un’utilità pari a zero. Quando se ne fa uno nuovo bisognerebbe chiuderne qualcuno di vecchio: ora sto proprio sconfinando nell’utopia.
Torniamo alla concretezza con l’ultima annotazione: sento dire che l’intervento degli Stati serve ad infondere sicurezza, che gli Stati non falliscono, che garantiscono depositi ecc…. Tutto bello, quasi troppo per essere vero, infatti, in realtà, mi risulta che non falliscono ma possono diventare insolventi (o l’Argentina non è uno Stato?). Quindi se vogliamo che gli Stati assolvano a questa funzione di garanzia è necessario che abbiamo i conti in ordine (leggi bilanci in pareggio e pochi debiti), perché altrimenti la loro affidabilità inizia ad essere minata. Certo oggi come oggi l’insolvenza delle principali economie non è certo all’ordine del giorno, anzi è qualcosa di difficilmente immaginabile, però, come ha mi ha detto un caro amico: fino al giorno prima mi parlavano di Fuld come si nomina un Dio in terra, poi l’incredibile, Lehman Brothers fallisce, adesso solo a nominarlo gli vomitano addosso di tutto. Quindi, come bisogna stare attenti a divinizzare le persone, attenzione a divinizzare lo Stato!!!
Ma com’è che è successo? Perché se non siamo d’accordo sulle cause, di certo si potrebbe anche somministrare la cura sbagliata, potremmo rifare gli stessi errori o peggiorare la situazione. Insomma di chi è la colpa?
Qui entriamo nel campo delle opinioni ed io vi dirò le mie che, se non altro, hanno il pregio di essere disinteressate e sincere e magari cercano anche qualche riscontro empirico. Sì perché dovete sapere che fin quando si resta alle teorie, soprattutto in economia, hanno tutti ragione.
Piccola ulteriore premessa: in economia ogni scelta di ciascuno influenza tutti gli altri, quindi sia nel bene che nel male l’economia mondiale è il risultato del comportamento di tutti gli abitanti del pianeta. Detto questo le scelte di alcuni hanno conseguenze un po’ più profonde di quelle degli altri. Quindi io come primo imputato metto sul banco degli imputati Alan Greenspan.
L’idea di voler influenzare l’economia reale e i corsi delle azioni attraverso i tassi di interesse è sbagliata e pericolosa. Negli USA si è inseguita l’idea di Keynes che lo sviluppo fosse trainato dai consumi e per mantenere alti i consumi valgono tutti i sistemi, dal deficit di bilancio ai tassi vicini allo zero. Quindi debito statale e debiti privati sono serviti per drogare una crescita evidentemente fittizia. Vi è una percezione generalizzata che il denaro facile porti comunque a fasi di sviluppo e di aumento di benessere, ma se poi i prezzi di case e materie prime triplicano, allora forse è una percezione da riconsiderare.
Si è discusso molto sulla scarsa propensione al risparmio degli americani, ma le persone rispondono agli stimoli che ricevono e si adattano all’ambiente in cui vivono. Con un’inflazione al 4% ed i tassi all’ 1% che stimolo al risparmio ci può essere? Mi pare che più di propensione culturale si possa parlare di scelta obbligata. La distruzione del risparmio degli americani mi sembra una grave responsabilità della FED ed è una debolezza strutturale che va modificata. Quindi abbiamo una prima cura alla crisi: gli americani dovrebbero iniziare a risparmiare. Meglio: devono essere messi in condizione di farlo. Quindi la politica monetaria americana deve cessare di essere inflazionistica.
Certo adesso siamo nel mezzo della bufera, bisogna evitare che la crisi travolga, assieme agli insolventi, anche le parti sane del sistema. Inoltre di fatto la crisi ha provocato una stretta creditizia pericolosa per il sistema, non si riesce a valutare l’affidabilità dei soggetti economici, aumenta il rischio di fare credito, i tassi interbancari sono aumentati e così via. Però presto o tardi arriverà il momento della stabilizzazione ed allora la scorciatoia di creare moneta illudendo di creare ricchezza deve essere abbandonata. Spero che sia così, però da sempre, non passa anno che, anche quando l’economia cresce, si trovano dei motivi per considerarsi in emergenza per giustificare politiche interventiste e poco lungimiranti.
Le scorciatoie in economia non funzionano mai. Qualcuno, forse, negli USA aveva pensato che fosse possibile tenere bassa l’inflazione anche con una crescita incontrollata di massa monetaria, importando merci a basso costo dalla Cina. Per un po’ ha funzionato poi, come sempre, gli effetti collaterali si sono manifestati. In parte quindi anche il boom cinese è stato finanziato dai debiti americani, ma non è stato solo questo a drogare la crescita cinese, anche il tasso di cambio artificiale ha fatto la sua parte. Questa crescita ha dato un contributo decisivo per alimentare l’aumento dei prezzi delle materie prime, ecco quindi che l’inflazione, fatta sparire da una parte te la ritrovi in casa. Il commercio internazionale è una cosa buona, ma va fatto a parità di condizioni. Si parla tanto di restrizioni di vario genere, mi sembra che la maggior parte delle idee siano o molto complicate o controproducenti. L’unica regola utile è anche di semplice attuazione: si commercia liberamente con gli Stati che non pongono restrizioni di tipo valutario, cioè lasciano fluttuare il proprio tasso di cambio. Abbiamo così un meccanismo che senza aggravio di costi ed in modo automatico va a sanare gli squilibri che si creano.
Come ho accennato l’aumento delle materie prime è un altro aspetto della crisi ed è quello, peraltro, che ha avuto l’impatto più forte sull’economia reale. La politica monetaria non è estranea a questo aumento, esistono però anche elementi strutturali, soprattutto nel comparto energetico che vanno affrontati. La disponibilità di energia è la prima condizione sine qua non per lo sviluppo economico, se vogliamo progettare il futuro è qui che bisogna lavorare. I Governi in questi giorni sembrano ossessionati dalle Borse e dalla recessione. Ma a parte il fatto che le Borse non obbediscono ai decreti, dobbiamo capire una cosa: le soluzioni a problemi di fondo non arrivano da un giorno all’altro, le migliori riforme sono quelle che dispiegano i propri effetti negli anni. Lo stesso discorso vale per la recessione, fare di tutto per evitare 6 mesi di recessione, magari rinviando solo la resa dei conti, non serve a niente. Più si ritarda la soluzione dei problemi più onerosa sarà la soluzione stessa. Meglio 6 mesi di recessione se però si gettano le basi per una crescita solida per gli anni a venire (l’esempio del Giappone mi sembra significativo).
Il rischio più grosso che corriamo, dicevo, è di non essere d’accordo sulle cause della crisi. Da una parte questo è dovuto a opinioni sinceramente diverse, dall’altra dal fatto che si può approfittare della crisi per gettato discredito sugli avversari politici, per qualcun altro può essere l’occasione per farsi dare un po’ di soldi o consolidare qualche privilegio immotivato.
Anche questa crisi, come tutte, è stata l’occasione per invocare “le regole”. Io posso anche essere d’accordo, però tenendo presente qualche piccolo suggerimento: da che mondo è mondo i migliori regolamenti sono quelli brevi, concisi, precisi. Non servono più regole, bisogna togliere quelle sbagliate e sostituirle. Pensiamo alle leggi italiane: sono migliaia, ovviamente nessuno le conosce, quindi la loro efficacia è minima. Mosè è sceso dal Sinai con 10 comandamenti, poi Gesù si è reso conto che erano comunque troppe da ricordare per l’uomo medio e quindi l’ha ridotte ad una. Non si pretende che i governanti abbiano lo stesso talento di Gesù, però…. Oltre tutto parliamoci chiaro, alla fine succede che c’è qualche nuovo organismo di controllo che serve a piazzare i conoscenti e che per prevenire le crisi ha un’utilità pari a zero. Quando se ne fa uno nuovo bisognerebbe chiuderne qualcuno di vecchio: ora sto proprio sconfinando nell’utopia.
Torniamo alla concretezza con l’ultima annotazione: sento dire che l’intervento degli Stati serve ad infondere sicurezza, che gli Stati non falliscono, che garantiscono depositi ecc…. Tutto bello, quasi troppo per essere vero, infatti, in realtà, mi risulta che non falliscono ma possono diventare insolventi (o l’Argentina non è uno Stato?). Quindi se vogliamo che gli Stati assolvano a questa funzione di garanzia è necessario che abbiamo i conti in ordine (leggi bilanci in pareggio e pochi debiti), perché altrimenti la loro affidabilità inizia ad essere minata. Certo oggi come oggi l’insolvenza delle principali economie non è certo all’ordine del giorno, anzi è qualcosa di difficilmente immaginabile, però, come ha mi ha detto un caro amico: fino al giorno prima mi parlavano di Fuld come si nomina un Dio in terra, poi l’incredibile, Lehman Brothers fallisce, adesso solo a nominarlo gli vomitano addosso di tutto. Quindi, come bisogna stare attenti a divinizzare le persone, attenzione a divinizzare lo Stato!!!
mercoledì 1 ottobre 2008
La bufala del Maine Coon Nano
Dopo le bufale degli orsi polari alla deriva nell’oceano e quella dell’arcobaleno al contrario, quella del Maine Coon nano è una delle più astute menzogne propagandistiche degli ultimi tempi, solo che non ha avuto lo stesso risalto mediatico.
Ma noi ora vi diremo tutta la verità nient’altro che la verità, niente di più niente di meno, come direbbe Morpheus.
Il gatto esiste ed è stato fotografato e le foto sono qui on line a corredo dell’articolo. Vi posso anche assicurare che la gatta, perché è femmina, è veramente nana, ma non è questa la sua caratteristica principale. La caratteristica più saliente è il fatto di avere un carattere insopportabile, spigoloso, un incrocio tra uno squalo bianco e alien.
E’ ovvio che qualunque amante dei gatti, me incluso, vorrebbe avere un bel gattone, che ti viene vicino sul divano e si fa accarezzare, perché il gatto è un animale rilassante, è magnetico, quasi magico. La gatta nana, il cui nome proprio è Puffy, ha tutt’altre abitudini: è subdola, ti attacca alle spalle, morde, graffia e poi ha alcune caratteristiche veramente uniche, cioè non sbadiglia mai, non fa mai gli occhietti e dorme sempre, cioè praticamente 23 ore al giorno, non ho mai visti un essere vivente dormire così tanto!! Credo anche che di notte le crescano delle ali come ai pipistrelli e vada in giro a succhiare il sangue, ma di questo non ho le prove, posso però testimoniare che se trova qualche sventurato addormentato gli azzanna i piedi!.
Ora è chiaro che anche la padrona di Puffy ambirebbe di avere un gatto bello che tutti possano dire: “che carino!!!” ed il Maine Coon ne è proprio il prototipo, bello e buono, un peluche gigante da coccolare.
La padrona di Puffy è dunque la responsabile di questa teoria della cospirazione detta del Maine Coon Nano, teoria secondo la quale Puffy sarebbe la rappresentante di questa razza, pregiata, rara e potenzialmente apprezzatissima.
Il problema è che Puffy è una specie di mutuo subprime, è stato accettato con faciloneria e adesso il problema è cambiargli nome e affibbiarlo a qualcun altro.
Sì perché la padrona di Puffy fu indotta ad accettare il mostriciattolo con l’inganno. La storia è questa: si presenta una tipa affermando che Puffy sta morendo assiderata. Ora sorvoliamo sul fatto che nessun gatto è mai morto assiderato in Liguria a livello del mare, ma dico io: ok gli diamo una bella riscaldata con il phon così si ripiglia e poi fuori dalle p…e! La debole indecisione della futura padrona di Puffy è chiaramente di facciata, diciamo pure che non vede l’ora di prendersi il pacchetto-regalo peloso, la tipa comunque pensa bene di rincarare la dose e di sfondare la porta già aperta: afferma che la gattina quasi certamente è troppo debilitata e destinata la morte certa nel giro di pochi giorni. Beh di fronte a questo non si può certo rifiutare! La padrona di Puffy decide di ignorare il fatto di possedere già un’adeguata colonia felina ed accoglie la nuova venuta.
Puffy ha ripreso le forze e, almeno nei rari momenti in cui è sveglia, dimostra di avere energia da vendere.
Comunque, in fondo, ho trovato in fretta un buon modus vivendi con Puffy, qualche calcio nel sedere, qualche pattone sul muso e, se è a portata di mano un oggetto adatto, qualche bacchettata sulla schiena. Certo, qualche volta mi attacca alle spalle, con la tattica del mordi e fuggi, ma insomma ci si può convivere tranquillamente, quindi se c’è qualcuno interessato….
lunedì 29 settembre 2008
La crisi in Georgia. Cosa fare e cosa ci insegna.
L’intervento armato russo in Georgia ha messo in difficoltà i governi europei, indecisi su come rispondere e diviso le opinioni pubbliche, altrettanto dubbiose su come rapportarsi alla vicenda.
L a politica, in particolare quella internazionale, è fatta di chiaroscuri, quando poi si parla di Caucaso (o di Balcani…) orientarsi tra i torti e le ragioni è difficilissimo. Vediamo di separare un attimo gli elementi per poterli meglio giudicare.
Da un punto di vista giuridico l’Ossezia del Sud fa parte della Georgia e la Russia non aveva alcun titolo per intervenire. La Georgia è un paese più libero e democratico della Russia, aspira all’ingresso nella NATO e nell’UE, quindi non c’è dubbio che vada sostenuto.
Ci sono altri dati di fatto da considerare: dal 1991, cioè da quando l’URSS si è sciolta e la Georgia è indipendente, l’Ossezia del Sud si autogoverna e gli Osseti che vi abitano, cioè la maggioranza assoluta della popolazione, non hanno alcuna intenzione di far parte della Georgia. Tutti sapevano che qualunque tentativo di riprendere il controllo con la forza della provincia ribelle avrebbe provocato l’intervento dei Russi, i quali anzi, hanno provocato le condizioni perché avvenisse.
Altro punto da considerare: in pratica, di realistico, non c’è nulla che possiamo fare per costringere l’esercito russo a sgomberare l’Ossezia.
Quindi intransigenza o realismo? Credo che sia necessaria intransigenza nei rapporti generali con la Russia e che sia inevitabile un po’ di realismo nella questione particolare georgiana.
Con la Russia ci sono molte questioni aperte oltre la questione del Caucaso: l’Ucraina, la Transdnistria, i rapporti con l’Iran, quelli con l’Asia Centrale, gli oleodotti, i gasdotti, il commercio di armi e di tecnologia nucleare. Senza aspettare che scoppi la prossima crisi l’Europa e gli USA devono aprire un tavolo di discussione con Mosca che affronti i in modo globale tutte le questioni aperte. Bisogna capire fin dove vuole arrivare la politica imperiale di Putin, noi dobbiamo mettere i nostri paletti, i Russi metteranno i loro. Io mi auguro che i rapporti si possano normalizzare, che si possa collaborare e che la Russia cessi la propria involuzione autoritaria, ma senza fare chiarezza reciproca tutto questo non è possibile, né verificabile. Si dice che le sfere di influenza non possono tornare, ma forse possono invece tornare utili, a patto che la Nato dica chiaramente per il futuro ciò che è disposta a tollerare e ciò che non verrà tollerato.
Intanto in Georgia, prima di discutere di altro bisogna pensare ai georgiani che abitavano in Ossezia e che sono stati cacciati dalle loro case. Anche l’Ossezia del sud, come l’Abkhazia del resto, non sono omogenee etnicamente, dentro i loro confini ci sono villaggi georgiani e se gli Osseti non vogliono dipendere da Tbilisi, questi Georgiani non vogliono dipendere da Tskhinvali. Vediamo se riusciamo a dare un futuro a queste persone.
Questa potrebbe essere una questione su cui misurare le intenzioni russe. Perché la Russia oggi è una potenza, ma ha gravi debolezze strutturali che in pochi anni ne possono minacciare seriamente la posizione: la crisi demografica, un’economia dipendente totalmente dalle esportazioni di gas e petrolio, un isolamento internazionale imbarazzante… le forze armate hanno peso e numeri, qualche produzione di eccellenza, ma sono ormai un passo indietro rispetto a quelle della NATO.
Medvedev e Putin fanno la faccia cattiva con l’Occidente ma sanno bene che non è dalla NATO che verranno le minacce vere e quindi dubito che pensino di impostare come strategia di lungo termine uno scontro frontale a tutto campo con gli USA.
La vicenda georgiana deve essere l’occasione per una riflessione generale sulla nostra sicurezza e sul mondo in cui viviamo. La democrazia e la libertà sono molto più estese rispetto a vent’anni fa. Dittature chiuse ed ostili, in Europa dell’Est, ma anche in America Latina fanno oggi parte del mondo libero. Però nello stesso tempo i nemici si sono fatti più numerosi e più potenti. Il blocco sovietico aveva un potenziale nucleare immenso, ma era debole economicamente e minato al proprio interno da un diffuso malcontento e comunque la minaccia arrivava da un’unica direzione. Oggi abbiamo dittature che hanno moltissime risorse, nemici fanatici, facciamo un piccolo elenco assolutamente eterogeneo e privo di coerenza interna ma che può dare un quadro della situazione: Cina, Iran, Al Qaeda, Hezbollah, poi c’è l’ambiguo Pakistan, Corea del Nord, il Venezuela, la Somalia, tante forze come ho detto certamente divise e non assimilabili ma che se trovano dei punti di convergenza o degli interessi comuni rappresentano certamente per noi una minaccia cospicua, non dimentichiamoci che fin quando sanno di essere in inferiorità agiscono nell’ombra, ma non appena percepiscono la nostra debolezza non possiamo aspettarci clemenza o senso della misura, oggi Pechino ordina agli europei di non ricevere il Dalai Lama, domani potrebbe imporci di negargli asilo o di tappargli la bocca del tutto. L’Occidente deve darsi una strategia chiara e coerente per garantire la propria libertà ed indipendenza. Questa strategia deve prevedere anche come allargare i propri confini e le proprie alleanze ai popoli che desiderano stare dalla nostra parte.
L a politica, in particolare quella internazionale, è fatta di chiaroscuri, quando poi si parla di Caucaso (o di Balcani…) orientarsi tra i torti e le ragioni è difficilissimo. Vediamo di separare un attimo gli elementi per poterli meglio giudicare.
Da un punto di vista giuridico l’Ossezia del Sud fa parte della Georgia e la Russia non aveva alcun titolo per intervenire. La Georgia è un paese più libero e democratico della Russia, aspira all’ingresso nella NATO e nell’UE, quindi non c’è dubbio che vada sostenuto.
Ci sono altri dati di fatto da considerare: dal 1991, cioè da quando l’URSS si è sciolta e la Georgia è indipendente, l’Ossezia del Sud si autogoverna e gli Osseti che vi abitano, cioè la maggioranza assoluta della popolazione, non hanno alcuna intenzione di far parte della Georgia. Tutti sapevano che qualunque tentativo di riprendere il controllo con la forza della provincia ribelle avrebbe provocato l’intervento dei Russi, i quali anzi, hanno provocato le condizioni perché avvenisse.
Altro punto da considerare: in pratica, di realistico, non c’è nulla che possiamo fare per costringere l’esercito russo a sgomberare l’Ossezia.
Quindi intransigenza o realismo? Credo che sia necessaria intransigenza nei rapporti generali con la Russia e che sia inevitabile un po’ di realismo nella questione particolare georgiana.
Con la Russia ci sono molte questioni aperte oltre la questione del Caucaso: l’Ucraina, la Transdnistria, i rapporti con l’Iran, quelli con l’Asia Centrale, gli oleodotti, i gasdotti, il commercio di armi e di tecnologia nucleare. Senza aspettare che scoppi la prossima crisi l’Europa e gli USA devono aprire un tavolo di discussione con Mosca che affronti i in modo globale tutte le questioni aperte. Bisogna capire fin dove vuole arrivare la politica imperiale di Putin, noi dobbiamo mettere i nostri paletti, i Russi metteranno i loro. Io mi auguro che i rapporti si possano normalizzare, che si possa collaborare e che la Russia cessi la propria involuzione autoritaria, ma senza fare chiarezza reciproca tutto questo non è possibile, né verificabile. Si dice che le sfere di influenza non possono tornare, ma forse possono invece tornare utili, a patto che la Nato dica chiaramente per il futuro ciò che è disposta a tollerare e ciò che non verrà tollerato.
Intanto in Georgia, prima di discutere di altro bisogna pensare ai georgiani che abitavano in Ossezia e che sono stati cacciati dalle loro case. Anche l’Ossezia del sud, come l’Abkhazia del resto, non sono omogenee etnicamente, dentro i loro confini ci sono villaggi georgiani e se gli Osseti non vogliono dipendere da Tbilisi, questi Georgiani non vogliono dipendere da Tskhinvali. Vediamo se riusciamo a dare un futuro a queste persone.
Questa potrebbe essere una questione su cui misurare le intenzioni russe. Perché la Russia oggi è una potenza, ma ha gravi debolezze strutturali che in pochi anni ne possono minacciare seriamente la posizione: la crisi demografica, un’economia dipendente totalmente dalle esportazioni di gas e petrolio, un isolamento internazionale imbarazzante… le forze armate hanno peso e numeri, qualche produzione di eccellenza, ma sono ormai un passo indietro rispetto a quelle della NATO.
Medvedev e Putin fanno la faccia cattiva con l’Occidente ma sanno bene che non è dalla NATO che verranno le minacce vere e quindi dubito che pensino di impostare come strategia di lungo termine uno scontro frontale a tutto campo con gli USA.
La vicenda georgiana deve essere l’occasione per una riflessione generale sulla nostra sicurezza e sul mondo in cui viviamo. La democrazia e la libertà sono molto più estese rispetto a vent’anni fa. Dittature chiuse ed ostili, in Europa dell’Est, ma anche in America Latina fanno oggi parte del mondo libero. Però nello stesso tempo i nemici si sono fatti più numerosi e più potenti. Il blocco sovietico aveva un potenziale nucleare immenso, ma era debole economicamente e minato al proprio interno da un diffuso malcontento e comunque la minaccia arrivava da un’unica direzione. Oggi abbiamo dittature che hanno moltissime risorse, nemici fanatici, facciamo un piccolo elenco assolutamente eterogeneo e privo di coerenza interna ma che può dare un quadro della situazione: Cina, Iran, Al Qaeda, Hezbollah, poi c’è l’ambiguo Pakistan, Corea del Nord, il Venezuela, la Somalia, tante forze come ho detto certamente divise e non assimilabili ma che se trovano dei punti di convergenza o degli interessi comuni rappresentano certamente per noi una minaccia cospicua, non dimentichiamoci che fin quando sanno di essere in inferiorità agiscono nell’ombra, ma non appena percepiscono la nostra debolezza non possiamo aspettarci clemenza o senso della misura, oggi Pechino ordina agli europei di non ricevere il Dalai Lama, domani potrebbe imporci di negargli asilo o di tappargli la bocca del tutto. L’Occidente deve darsi una strategia chiara e coerente per garantire la propria libertà ed indipendenza. Questa strategia deve prevedere anche come allargare i propri confini e le proprie alleanze ai popoli che desiderano stare dalla nostra parte.
lunedì 8 settembre 2008
8 settembre. Una data storica per l'Europa.

L’8 settembre è certamente una data storica per il nostro continente , infatti quel giorno dell’anno 1380, per la prima volta un esercito europeo sconfigge in battaglia i Mongoli e dà inizio alla riconquista dei territori da loro occupati.
I Mongoli unificati da Genghis Khan dopo aver conquistato e sottomesso i regni vicini ed il nord della Cina volsero le proprie mire verso Occidente, il primo scontro con i Russi avvenne nel 1223 e i principi russi sconfitti dovette accettare la supremazia, almeno formale del Khan mongolo. Dopo la morte di Genghis Khan, i territori occidentali vennero assegnati da suo figlio e successore Ogodai a Batu. Quest’ultimo procedette a al consolidamento dei suoi domini e proseguì le invasioni; nel 1240 distrusse Kiev, la capitale del primo Stato Russo, dopodiché divise la sua armata. Quella settentrionale annientò nel 1241 l’esercito di Enrico II di Slesia che comprendeva polacchi, tedeschi e cavalieri Teutonici, nella famosa battaglia di Liegnitz; due giorni dopo l’altra armata sconfisse gli Ungheresi, ponendo fine al loro regno, proseguendo nell’avanzata i Mongoli giunsero sull’Adriatico. A questo punto forse a causa della morte di Ogodei, o per il territorio poco adatto alla loro sterminata cavalleria, ripiegarono verso le posizioni di partenza, i principi russi rimasero comunque vassalli del Khan che fondò il regno dell’Orda d’Oro. Questo regno guidato da un’elite mongola aveva però reclutato nelle proprie armate buona parte delle popolazioni turche e centroasiatiche via via conquistate.
Durante le loro conquiste i Mongoli guadagnarono la fama di guerrieri terribili ed invincibili. Non senza ragione se pensiamo che le prime sconfitte avvennero praticamente ai due estremi del mondo: nel 1260 ad Ayn Jalut, non lontano dalle coste del Mediterraneo, sconfitti dai Mamelucchi e nel 1274, durante la fallita invasione del Giappone. Era dunque passato più di mezzo secolo dalla proclamazione di Temucin a capo di tutti i Mongoli.
La premessa è necessaria per capire che sfidare l’autorità del Khan non era una cosa semplice, chi compì l’impresa fu Demetrio principe di Mosca. Il suo attivismo nell’espandere il principato moscovita lo pose in attrito con Mamai il capo dell’Orda d’Oro. Quest’ultimo non riuscendo a rimettere in riga il proprio vassallo allestì una grande armata e puntò diritto verso il Don. Lo scontro fu deciso l’8 settembre 1380 nella battaglia campale di Kulikovo, nei pressi della confluenza della Nepradva nel Don. I russi misero in rotta il nemico, la liberazione fu però completata solo 100 anni più tardi con Ivan III. Infatti il successore di Mamai cioè Toqtamish, celebre per i suoi scontri con Tamerlano, ristabilì l’autorità dell’Orda d’Oro, ma ormai l’inerzia della Storia era cambiata e l’ondata inziata in Mongolia aveva iniziato il proprio riflusso.
venerdì 5 settembre 2008
"Le radici pagane dell'Europa" di Luciano Pellicani
Partiamo dal difetto principale del libro: non affronta mai il tema richiamato nel titolo, cioè cosa rimane nell’Europa di oggi dell’eredità culturale, delle idee, dei miti, delle istituzioni dell’Europa antica, pagana, greca, romana e ma anche celtica e germanica.
Il libro tratta invece del Cristianesimo e di come alcuni tratti del mondo contemporaneo, in particolare la tolleranza religiosa e la libertà di pensiero, si siano imposti lottando contro il Cristianesimo.
Difficile negare che i vertici della Chiesa, nei secoli, si siano adoperati in ogni modo per conservare ed ampliare il proprio potere temporale, usando la repressione e la persecuzione nei confronti degli eretici, però diciamo che Pellicani estremizza la sua tesi negando al Cristianesimo ogni merito nell’edificazione di quelli che oggi propugniamo come fiori all’occhiello della nostra civiltà: la democrazia ed i diritti umani. I Vangeli del resto non sono un testo organico, bensì un collage di resoconti, parabole, insegnamenti, per cui ognuno, da duemila anni, in buona fede o meno, ne estrapola le parti più utili ai propri scopi. Ai Vangeli facevano riferimento l’Inquisizione e San Francesco, Savonarola e Gregorio Magno, Arnaldo da Brescia, Nestorio, Ario, sant’Agostino e Madre Teresa e si potrebbe continuare all’infinito. E’ vero che la Chiesa di oggi è diversa da quella dell’Ottocento e da quella Medievale perché vi è stata costretta è però vero anche, a mio avviso, che l’Illuminismo stesso riprende temi ben presenti nel Cristianesimo, a partire dalla dignità e centralità dell’uomo.
Il libro è scritto in modo scorrevole e riesce a catturare spesso l’interesse, oltre che per i ragionamenti che propone e che stimolano il lettore, anche per il frequente ricorso a citazioni letterali.
Pellicani attacca anche a fondo la tesi secondo cui la Riforma Protestante abbia favorito lo sviluppo del Capitalismo, forza quest’ultima generatrice di modernità ed avversa alla tutela clericale sulla società. Pellicani dimostra in modo convincente come Lutero, Calvino, metodisti, puritani e via dicendo erano profondamente ostili ad ogni forma di modernità tanto quanto la Chiesa Cattolica, solo che il Papa poteva servirsi delle forze imperiali per soffocare ogni deviazione, mentre le varie chiese protestanti divise tra loro non riuscirono ad imporsi ai detentori del potere politico in Nordeuropa. Inoltre, in molte zone, le varie confessioni erano troppo numerose perché una potesse pensare di imporre la propria ortodossia a tutte le altre, quindi l’accettare che anche gli altri potessero esistere era l’unico modo di convivere.
Non c’è dubbio che un legame tra Rivoluzione Industriale e scristianizzazione dell’Europa ci sia, anche se è difficile da esplicitarne tutti i termini. Sicuramente già in epoca preindustriale la borghesia ogni volta che emergeva come forza sociale iniziava a reclamare il diritto a scegliere politicamente il proprio destino, cercando di sostituirsi all’ordine costituito. Venuta meno la possibilità per le autorità ecclesiastiche di imporre con la forza il credo ed aperta la strada alla libertà di coscienza è chiaro che molti cercano altre strade per rapportarsi con il divino. Questa scristianizzazione però non significa un automatico ritorno al paganesimo, anzi nel mondo odierno ravvisiamo elementi che gli Antichi non esiterebbero a condannare o comunque nuovi rispetto al loro universo culturale. E’ però vero che gli Umanisti, in particolare, si richiamavano all’esperienza dei Greci e dei Romani e sulla base della loro memoria criticavano il Cristianesimo “che pare abbia tenuto il mondo debole, e datolo in preda a uomini scellerati” e “ per avere effeminato il mondo e disarmato il cielo”.
L’autore non entra nel merito circa che cosa intedere in questo caso con il termine Capitalismo, perché in effetti alcune famiglie che avevano messo insieme enormi fortune con la crescita economica rinascimentale erano saldamente legate al potere papale (ad esempio i Medici) e non erano molto interessate a cambiare l’ordine della cose. Probabilmente è più l’insieme degli artigiani e dei commercianti che diedero vita alla rinascita comunale che vollero farsi arbitri del proprio destino, anche quelli che si schierarono dalla parte guelfa formando le celeberrime Leghe, avevano creato un precedente pericoloso per la concezione di potere medievale, compreso il potere temporale del Papa che stavano difendendo. Ecco una descrizione letterale di questo comportamento rivoluzionario degli abitanti dei Comuni: “si tassarono, elessero i loro magistrati, giudicarono, punirono, si riunirono per deliberare sui propri affari; fecero la guerra per proprio conto, contro il loro signore; ebbero nuove milizie. Per dirla in breve si governarono da sé”.
Pellicani riconduce gli aspetti negativi in cui si è storicizzato il Cristianesimo, come l’intolleranza e la teocrazia, alla sua origine giudaica. La religione ebraica risente culturalmente del contesto geografico in cui nasce e si sviluppa, cioè mediorientale e più in generale asiatico, dove assolutismo e dispotismo, sono caratteri culturali con radici molto antiche, sia a livello delle strutture politico-religiose, che in generale sociali, fino a quelle familiari, insomma tutto un ambiente dove rigide gerarchie ed obbedienza senza discussioni sono alla base di tutti i rapporti.
Fin qui mi trovo d’accordo,devo dire però che l’autore attribuisce a Gesù stesso un continuum con la tradizione ebraica che invece non mi sembra corrispondente al dettato evangelico. Sono più incline a considerare corretta l’analisi di Ida Magli che, nel suo libro “Gesù di Nazareth”, sottolinea il carattere di rottura che ha la predicazione di Gesù, rispetto alla legge giudaica.
E comunque l’essere a maggioranza di religione ebraica non ha impedito a Israele di avere una struttura politica e sociale analoga a quella europea. La modernità aveva fatto breccia anche nei ghetti.
La disputa sulle radici dell’Europa va avanti.
Il libro tratta invece del Cristianesimo e di come alcuni tratti del mondo contemporaneo, in particolare la tolleranza religiosa e la libertà di pensiero, si siano imposti lottando contro il Cristianesimo.
Difficile negare che i vertici della Chiesa, nei secoli, si siano adoperati in ogni modo per conservare ed ampliare il proprio potere temporale, usando la repressione e la persecuzione nei confronti degli eretici, però diciamo che Pellicani estremizza la sua tesi negando al Cristianesimo ogni merito nell’edificazione di quelli che oggi propugniamo come fiori all’occhiello della nostra civiltà: la democrazia ed i diritti umani. I Vangeli del resto non sono un testo organico, bensì un collage di resoconti, parabole, insegnamenti, per cui ognuno, da duemila anni, in buona fede o meno, ne estrapola le parti più utili ai propri scopi. Ai Vangeli facevano riferimento l’Inquisizione e San Francesco, Savonarola e Gregorio Magno, Arnaldo da Brescia, Nestorio, Ario, sant’Agostino e Madre Teresa e si potrebbe continuare all’infinito. E’ vero che la Chiesa di oggi è diversa da quella dell’Ottocento e da quella Medievale perché vi è stata costretta è però vero anche, a mio avviso, che l’Illuminismo stesso riprende temi ben presenti nel Cristianesimo, a partire dalla dignità e centralità dell’uomo.
Il libro è scritto in modo scorrevole e riesce a catturare spesso l’interesse, oltre che per i ragionamenti che propone e che stimolano il lettore, anche per il frequente ricorso a citazioni letterali.
Pellicani attacca anche a fondo la tesi secondo cui la Riforma Protestante abbia favorito lo sviluppo del Capitalismo, forza quest’ultima generatrice di modernità ed avversa alla tutela clericale sulla società. Pellicani dimostra in modo convincente come Lutero, Calvino, metodisti, puritani e via dicendo erano profondamente ostili ad ogni forma di modernità tanto quanto la Chiesa Cattolica, solo che il Papa poteva servirsi delle forze imperiali per soffocare ogni deviazione, mentre le varie chiese protestanti divise tra loro non riuscirono ad imporsi ai detentori del potere politico in Nordeuropa. Inoltre, in molte zone, le varie confessioni erano troppo numerose perché una potesse pensare di imporre la propria ortodossia a tutte le altre, quindi l’accettare che anche gli altri potessero esistere era l’unico modo di convivere.
Non c’è dubbio che un legame tra Rivoluzione Industriale e scristianizzazione dell’Europa ci sia, anche se è difficile da esplicitarne tutti i termini. Sicuramente già in epoca preindustriale la borghesia ogni volta che emergeva come forza sociale iniziava a reclamare il diritto a scegliere politicamente il proprio destino, cercando di sostituirsi all’ordine costituito. Venuta meno la possibilità per le autorità ecclesiastiche di imporre con la forza il credo ed aperta la strada alla libertà di coscienza è chiaro che molti cercano altre strade per rapportarsi con il divino. Questa scristianizzazione però non significa un automatico ritorno al paganesimo, anzi nel mondo odierno ravvisiamo elementi che gli Antichi non esiterebbero a condannare o comunque nuovi rispetto al loro universo culturale. E’ però vero che gli Umanisti, in particolare, si richiamavano all’esperienza dei Greci e dei Romani e sulla base della loro memoria criticavano il Cristianesimo “che pare abbia tenuto il mondo debole, e datolo in preda a uomini scellerati” e “ per avere effeminato il mondo e disarmato il cielo”.
L’autore non entra nel merito circa che cosa intedere in questo caso con il termine Capitalismo, perché in effetti alcune famiglie che avevano messo insieme enormi fortune con la crescita economica rinascimentale erano saldamente legate al potere papale (ad esempio i Medici) e non erano molto interessate a cambiare l’ordine della cose. Probabilmente è più l’insieme degli artigiani e dei commercianti che diedero vita alla rinascita comunale che vollero farsi arbitri del proprio destino, anche quelli che si schierarono dalla parte guelfa formando le celeberrime Leghe, avevano creato un precedente pericoloso per la concezione di potere medievale, compreso il potere temporale del Papa che stavano difendendo. Ecco una descrizione letterale di questo comportamento rivoluzionario degli abitanti dei Comuni: “si tassarono, elessero i loro magistrati, giudicarono, punirono, si riunirono per deliberare sui propri affari; fecero la guerra per proprio conto, contro il loro signore; ebbero nuove milizie. Per dirla in breve si governarono da sé”.
Pellicani riconduce gli aspetti negativi in cui si è storicizzato il Cristianesimo, come l’intolleranza e la teocrazia, alla sua origine giudaica. La religione ebraica risente culturalmente del contesto geografico in cui nasce e si sviluppa, cioè mediorientale e più in generale asiatico, dove assolutismo e dispotismo, sono caratteri culturali con radici molto antiche, sia a livello delle strutture politico-religiose, che in generale sociali, fino a quelle familiari, insomma tutto un ambiente dove rigide gerarchie ed obbedienza senza discussioni sono alla base di tutti i rapporti.
Fin qui mi trovo d’accordo,devo dire però che l’autore attribuisce a Gesù stesso un continuum con la tradizione ebraica che invece non mi sembra corrispondente al dettato evangelico. Sono più incline a considerare corretta l’analisi di Ida Magli che, nel suo libro “Gesù di Nazareth”, sottolinea il carattere di rottura che ha la predicazione di Gesù, rispetto alla legge giudaica.
E comunque l’essere a maggioranza di religione ebraica non ha impedito a Israele di avere una struttura politica e sociale analoga a quella europea. La modernità aveva fatto breccia anche nei ghetti.
La disputa sulle radici dell’Europa va avanti.
sabato 28 giugno 2008
La Battaglia di Antiochia
Per la rubrica accadde oggi: il 28 giugno 1098 l’esercito Crociato si scontrò con i Turchi sotto le mura di Antiochia. Tutte le battaglie portano con loro adrenalina ed emozioni inimmaginabili, la paura, la ferocia e la morte accompagnano chi combatte fin dai momenti che precedono lo scontro.
In questa battaglia però i sentimenti che scuotevano i crociati dovevano essere particolarmente intensi, perché la situazione che si era creata non lasciava loro che due strade: la vittoria o la morte.
La disperazione del momento, i più terreni bisogni fisici di tutti si mescolavano con le profonde convinzioni spirituali di altri e crearono i presupposti della vittoria. Alcuni strateghi pensano che questo tipo di situazione sia da ricercare, perché senza vie di fuga, con le spalle al muro, gli eserciti danno il massimo delle proprie possibilità.
Antiochia era stata presa dai crociati il 3 giugno, stante la debolezza e la disgregazione dei territori Selgiuchidi e l’ostilità che i Fatimidi d’Egitto nutrivano verso questi ultimi, la reazione musulmana prese corpo per l’iniziativa dell’atabeg di Mosul, Kerboga, in quel momento il capo musulmano più potente della zona, nonché il comandante più capace. Kerboga giunse sotto le mura di Antiochia il 7 giugno e la mise sotto assedio per riprenderla.
Il cibo era scarso, il saccheggio ed il massacro seguito alla presa dei crociati aveva esaurito quasi tutte le risorse della città. Rifornirsi era impossibile, l’unico modo per uscirne era rompere l’assedio, anche perché non c’erano aiuti che potessero arrivare in breve tempo, del resto questa Prima Crociata non vedeva due netti fronti contrapposti, il mondo cristiano era diviso, così come quello musulmano, il ruolo dell’Impero Bizantino era ambiguo ed i capi crociati diffidenti e spesso ostili reciprocamente.
La mattina del 28 Boemondo fece uscire l’esercito dalle mura e si schierò davanti al nemico, dividendo gli uomini in sei armate: la prima era formata dai Francesi e dai Fiamminghi, la seconda dai Lotaringi, la terza dai Normanni di Normandia, la quarta dai Provenzali, la quinta e la sesta dai Normanni d’Italia.
I Turchi cercarono di evitare lo scontro frontale e con la classica tattica dei cavalieri delle steppe, con rapide fughe per farsi inseguire e rapidi contrattacchi, cercavano di dividere i nemici. Il fronte crociato rimase però compatto, evitò l’accerchiamento e riuscì a caricare abbastanza velocemente da arrivare al contatto. A disgregarsi fu l’armata turca, alcuni alleati di Kerboga defezionarono, molti dei suoi uomini perirono, alla sera l’esercito assediante non c’era più. La Crociata continuava.
In questa battaglia però i sentimenti che scuotevano i crociati dovevano essere particolarmente intensi, perché la situazione che si era creata non lasciava loro che due strade: la vittoria o la morte.
La disperazione del momento, i più terreni bisogni fisici di tutti si mescolavano con le profonde convinzioni spirituali di altri e crearono i presupposti della vittoria. Alcuni strateghi pensano che questo tipo di situazione sia da ricercare, perché senza vie di fuga, con le spalle al muro, gli eserciti danno il massimo delle proprie possibilità.
Antiochia era stata presa dai crociati il 3 giugno, stante la debolezza e la disgregazione dei territori Selgiuchidi e l’ostilità che i Fatimidi d’Egitto nutrivano verso questi ultimi, la reazione musulmana prese corpo per l’iniziativa dell’atabeg di Mosul, Kerboga, in quel momento il capo musulmano più potente della zona, nonché il comandante più capace. Kerboga giunse sotto le mura di Antiochia il 7 giugno e la mise sotto assedio per riprenderla.
Il cibo era scarso, il saccheggio ed il massacro seguito alla presa dei crociati aveva esaurito quasi tutte le risorse della città. Rifornirsi era impossibile, l’unico modo per uscirne era rompere l’assedio, anche perché non c’erano aiuti che potessero arrivare in breve tempo, del resto questa Prima Crociata non vedeva due netti fronti contrapposti, il mondo cristiano era diviso, così come quello musulmano, il ruolo dell’Impero Bizantino era ambiguo ed i capi crociati diffidenti e spesso ostili reciprocamente.
La mattina del 28 Boemondo fece uscire l’esercito dalle mura e si schierò davanti al nemico, dividendo gli uomini in sei armate: la prima era formata dai Francesi e dai Fiamminghi, la seconda dai Lotaringi, la terza dai Normanni di Normandia, la quarta dai Provenzali, la quinta e la sesta dai Normanni d’Italia.
I Turchi cercarono di evitare lo scontro frontale e con la classica tattica dei cavalieri delle steppe, con rapide fughe per farsi inseguire e rapidi contrattacchi, cercavano di dividere i nemici. Il fronte crociato rimase però compatto, evitò l’accerchiamento e riuscì a caricare abbastanza velocemente da arrivare al contatto. A disgregarsi fu l’armata turca, alcuni alleati di Kerboga defezionarono, molti dei suoi uomini perirono, alla sera l’esercito assediante non c’era più. La Crociata continuava.
giovedì 27 marzo 2008
Perchè sì al partito unitario (e come dovrebbe essere)
Una piccola premessa è necessaria: nonostante l’abbondante offerta di partiti che si sono succeduti sulla scena politica italiana in questi anni, non c’è mai stato un partito che rappresentasse pienamente le mie opinioni. Io credo in un’economia libera e questo già restringe drammaticamente il campo, vista l’atavica diffidenza dei politici italiani per il libero scambio, la concorrenza e la libertà di impresa. Nello stesso tempo auspico una giustizia severa ed intransigente perché credo che la difesa dei propri cittadini sia il compito fondamentale dello Stato. Credo che la disciplina di bilancio sia la tutela migliore per il benessere comune, ma normalmente i parlamentari sono propensi ad andare in direzione opposta al pareggio di bilancio ed alla riduzione dell’apparato statale. Potrei continuare con la mia avversione verso ogni arrendevolezza nei confronti della droga. Sono contrario alle attuali istituzioni europee, ma favorevole allo spirito europeista e all’euro (nonostante gli effetti disastrosi nei primi anni dell’introduzione), credo che sia compito fondamentale dei nostri rappresentanti all’interno delle istituzioni difendere la nostra identità culturale e così via, ma insomma il concetto è che un partito che mi rappresenta non c’è. Per questo motivo un partito unitario all’interno del quale si possono manifestare le varie tendenze che ho espresso mi faciliterebbe molto la scelta. Naturalmente per rendere operativa una reale possibilità di scelta bisognerebbe che all’interno del partito fosse possibile poter sostenere il candidato che più si avvicina all’insieme delle proprie convinzioni. La semplificazione del quadro politico odierno restringe il campo del centrodestra a PDL, la Lega e la Destra. Anche così resta il fatto che ho buone ragioni per votare e per non votare ciascuno di questi. Di tutti certamente il PDL sembra poter diventare il contenitore adatto a raccogliere le istanze di una larga maggioranza, ma è quello che aspettavo? Diciamo che è un passo avanti, ma dipenderà molto dal tipo di organizzazione che deciderà di darsi. Costruire un nuovo partito potrebbe essere l’occasione per riscrivere le regole e creare quindi un movimento veramente aperto alla partecipazione dei cittadini; a dire il vero se guardiamo alla realtà è difficile immaginare un’evoluzione in questo senso: oggi i partiti politici, compresi quelli che hanno dato vita al PDL sono organizzazioni in cui tutto il potere decisionale è concentrato al vertice e l’influenza della base è praticamente nulla. Come si potrebbe organizzare un partito unitario siffatto? Secondo me dovrebbe far scegliere ai propri sostenitori (con o senza tessera) i candidati alle posizioni più importanti: sindaco, governatore di regione, presidente del consiglio. La base degli iscritti del Partito dovrebbe poter scegliere i vertici dell’organizzazione, si dovrebbe prevedere anche alcune rappresentanze a rotazione. Il partito dovrebbe avere come compito fondamentale quello di gestire il momento elettorale e quello di organizzare il rapporto con i rappresentanti eletti nei vari organi locali e nazionali. Il partito dovrebbe evitare l’omologazione e l’appiattimento delle idee, dovrebbe invece essere aperto al dialogo con tutte le forme associative nelle quali i cittadini possono esprimere la propria partecipazione politica, penso ad Azione Giovani, ai Circoli della Libertà, alle fondazioni, agli istituti di studio; un po’ come avviene negli USA, dove guardano al Partito Repubblicano i movimenti anti tasse, quelli a favore del possesso di armi, gli antiabortisti, il movimento conservatore, cioè sia associazioni che si concentrano su un unico tema particolare o territoriale, sia quelle che esprimono un ventaglio completo di valori ed opinioni; dal dialogo, dallo scambio di idee e dai dibattiti, i vari candidati propongono poi una sintesi di azione politica.
Insomma… tutto l’opposto di quello che avviene da queste parti.
Insomma… tutto l’opposto di quello che avviene da queste parti.
martedì 25 marzo 2008
Passeggiata sul Monte San Giacomo
mercoledì 19 marzo 2008
Iraq, perchè la guerra non andava fatta
20 marzo 2003 cominciava la seconda guerra in Iraq, 5 anni in cui gli USA hanno visto rapidamente mutare davanti a sé il nemico: prima l’esercito di Saddam, poi la guerriglia dei nostalgici, di Al-qaeda e quella delle milizie sciite.
A mio avviso c’erano 3 buone ragioni per non iniziare quella guerra:
- La prima è che strategicamente conviene concentrare le forze: la guerra in Afghanistan non era (e non è) finita, ai Talebani si oppongono sparute forze Nato. Metà del contingente iracheno significherebbe un incremento tale delle forze in campo in Afghanistan da rendere possibile il controllo del territorio, in un paese che mal si presta ad essere occupato. Gli USA hanno uno strapotere di fuoco tale da poter annientare numerosi nemici contemporaneamente, ma se il progetto è sostituire i regimi che proteggono i terroristi con Governi non ostili, allora ci vogliono soldati, tanti soldati e tanta pazienza e non conviene cominciare un lavoro senza averne finito un altro.
- La seconda ragione è che non c’era un progetto definito sulla linea da seguire dopo la vittoria militare. L’unico progetto dichiarato è la creazione della prima democrazia del mondo arabo. Progetto ambizioso e comunque, di fatto, il più lungo da realizzare, soprattutto mantenendone l’unità territoriale; anche perché il primo requisito per una democrazia è che i suoi cittadini la vogliano e le guerre civili incrociate viste in Iraq gettano qualche dubbio in proposito.
- Terzo motivo: era chiaro a tutti che le tensioni tra Curdi; Sunniti e Sciiti potevano sfociare in un disgregamento della convivenza; è stato facile per i vicini, Siria e Iran, che si sono sentiti minacciati, fomentare le divisioni e destabilizzare il paese, allontanando da sé il pericolo di un intervento americano.
C’è poi il problema dei costi che va sempre tenuto presente ogni volta che si spende, in questo caso c’è da chiedersi: le stesse cifre potevano accrescere maggiormente la sicurezza nazionale impiegate in modo diverso?
Il Governo Americano, reagendo agli attacchi dell’11 settembre, disse che non avrebbe tollerato che degli Stati potessero dare asilo, finanziare, addestrare, proteggere gruppi terroristici e che la creazione di paesi democratici in Medio Oriente sarebbe stato l’unico antidoto all’estremismo islamico, il ragionamento è sensato e da appoggiare. Indubbiamente l’Iraq era uno Stato ostile, uno Stato che aveva risorse economiche e tecniche per essere molto pericoloso. Saddam aveva sviluppato ed usato armi di distruzione di massa contro gli stessi propri cittadini e nella nuova dimensione assunta dalla sfida di Al-qaeda all’Occidente c’era il rischio che trovasse una convergenza, anche temporanea con il terrorismo binladista, cedendo armi chimiche a coloro che non avrebbero problemi ad usarle nelle nostre città. Una volta iniziata la guerra il nemico ha dimostrato di essersi preparato per tempo predisponendo una strategia di logoramento simile a quella che incontrarono gli israeliani durante l’occupazione del Libano. Si è quindi palesato il rischio che il disfattismo avesse la meglio e che si giungesse, come in Vietnam, a perdere la guerra senza aver perso una battaglia.
Bisogna dire che se la strategia dei baathisti fatta di ordigni sul ciglio della strada poteva essere prevista, meno prevedibile la valanga di kamikaze che gli estremisti islamici hanno messo in campo, quasi sempre con bersaglio i civili iracheni.
Se la pistola fumante delle armi di distruzione di massa non è stata trovata (come era ovvio), l’Iraq ha dimostrato però che la “guerra al terrorismo” non è un’invenzione. Quasi ogni giorno, per mesi ed anni, i terroristi sono riusciti a mettere in campo almeno “un martire” pronto a portare morte ed accendere lo scontro.
Tenerli impegnati in Iraq li ha alleggerito il pericolo di attentati in Occidente?
Probabilmente sì, peraltro l’Europa è molto più esposta degli USA al rischio di essere infiltrata dai terroristi, eppure sembra riluttante a perseguire la strategia di tenere i fanatici concentrati su obiettivi al di fuori dei nostri confini.
Oggi sembra che il risultato di stabilizzare l’Iraq sia a portata di mano, la strategia promossa dal generale Petraeus sta avendo successo, la questione decisiva è capire quando il paese potrà mantenere una normalizzazione accettabile con le sole proprie forze. Le operazioni contro formazioni di insorti richiedono tempi molto lunghi, pensiamo ad esempio all’esercito britannico che ha operato in Irlanda del Nord per 38 anni prima di ritirarsi lo scorso anno.
Forse la guerra non andava iniziata, ma è necessario portarla a compimento con determinazione perché il nemico di oggi è altrettanto pericoloso del regime abbattuto e non è possibile ritirarsi lasciandogli campo libero.
A mio avviso c’erano 3 buone ragioni per non iniziare quella guerra:
- La prima è che strategicamente conviene concentrare le forze: la guerra in Afghanistan non era (e non è) finita, ai Talebani si oppongono sparute forze Nato. Metà del contingente iracheno significherebbe un incremento tale delle forze in campo in Afghanistan da rendere possibile il controllo del territorio, in un paese che mal si presta ad essere occupato. Gli USA hanno uno strapotere di fuoco tale da poter annientare numerosi nemici contemporaneamente, ma se il progetto è sostituire i regimi che proteggono i terroristi con Governi non ostili, allora ci vogliono soldati, tanti soldati e tanta pazienza e non conviene cominciare un lavoro senza averne finito un altro.
- La seconda ragione è che non c’era un progetto definito sulla linea da seguire dopo la vittoria militare. L’unico progetto dichiarato è la creazione della prima democrazia del mondo arabo. Progetto ambizioso e comunque, di fatto, il più lungo da realizzare, soprattutto mantenendone l’unità territoriale; anche perché il primo requisito per una democrazia è che i suoi cittadini la vogliano e le guerre civili incrociate viste in Iraq gettano qualche dubbio in proposito.
- Terzo motivo: era chiaro a tutti che le tensioni tra Curdi; Sunniti e Sciiti potevano sfociare in un disgregamento della convivenza; è stato facile per i vicini, Siria e Iran, che si sono sentiti minacciati, fomentare le divisioni e destabilizzare il paese, allontanando da sé il pericolo di un intervento americano.
C’è poi il problema dei costi che va sempre tenuto presente ogni volta che si spende, in questo caso c’è da chiedersi: le stesse cifre potevano accrescere maggiormente la sicurezza nazionale impiegate in modo diverso?
Il Governo Americano, reagendo agli attacchi dell’11 settembre, disse che non avrebbe tollerato che degli Stati potessero dare asilo, finanziare, addestrare, proteggere gruppi terroristici e che la creazione di paesi democratici in Medio Oriente sarebbe stato l’unico antidoto all’estremismo islamico, il ragionamento è sensato e da appoggiare. Indubbiamente l’Iraq era uno Stato ostile, uno Stato che aveva risorse economiche e tecniche per essere molto pericoloso. Saddam aveva sviluppato ed usato armi di distruzione di massa contro gli stessi propri cittadini e nella nuova dimensione assunta dalla sfida di Al-qaeda all’Occidente c’era il rischio che trovasse una convergenza, anche temporanea con il terrorismo binladista, cedendo armi chimiche a coloro che non avrebbero problemi ad usarle nelle nostre città. Una volta iniziata la guerra il nemico ha dimostrato di essersi preparato per tempo predisponendo una strategia di logoramento simile a quella che incontrarono gli israeliani durante l’occupazione del Libano. Si è quindi palesato il rischio che il disfattismo avesse la meglio e che si giungesse, come in Vietnam, a perdere la guerra senza aver perso una battaglia.
Bisogna dire che se la strategia dei baathisti fatta di ordigni sul ciglio della strada poteva essere prevista, meno prevedibile la valanga di kamikaze che gli estremisti islamici hanno messo in campo, quasi sempre con bersaglio i civili iracheni.
Se la pistola fumante delle armi di distruzione di massa non è stata trovata (come era ovvio), l’Iraq ha dimostrato però che la “guerra al terrorismo” non è un’invenzione. Quasi ogni giorno, per mesi ed anni, i terroristi sono riusciti a mettere in campo almeno “un martire” pronto a portare morte ed accendere lo scontro.
Tenerli impegnati in Iraq li ha alleggerito il pericolo di attentati in Occidente?
Probabilmente sì, peraltro l’Europa è molto più esposta degli USA al rischio di essere infiltrata dai terroristi, eppure sembra riluttante a perseguire la strategia di tenere i fanatici concentrati su obiettivi al di fuori dei nostri confini.
Oggi sembra che il risultato di stabilizzare l’Iraq sia a portata di mano, la strategia promossa dal generale Petraeus sta avendo successo, la questione decisiva è capire quando il paese potrà mantenere una normalizzazione accettabile con le sole proprie forze. Le operazioni contro formazioni di insorti richiedono tempi molto lunghi, pensiamo ad esempio all’esercito britannico che ha operato in Irlanda del Nord per 38 anni prima di ritirarsi lo scorso anno.
Forse la guerra non andava iniziata, ma è necessario portarla a compimento con determinazione perché il nemico di oggi è altrettanto pericoloso del regime abbattuto e non è possibile ritirarsi lasciandogli campo libero.
sabato 15 marzo 2008
La seconda migliore intervista della storia del cinema
Pensandoci bene la seconda migliore intervista che ho mai sentito in un film è quella di "Bull Harley" in Over the Top, che potete rivedere alla fine del breve filmato.
venerdì 14 marzo 2008
Un pò di libri
Di seguito qualche consiglio per la lettura, con relativa votazione. In questo elenco ci sono diversi 5 stelle.
Giuseppe Antonelli - Storia di Roma antica *****
Giuseppe Antonelli - Catilina ****
John Micklethwait, Adrian Wooldridge - La destra giusta *****
Cyril Mango -La civiltà bizantina **
Paolo Alatri - Mussolini ***
Mino Monicelli -La Repubblica di Salò **
Bluche, Rials, Tulard - La Rivoluzione Francese ***
Sun-Tzu - L'arte della guerra *****
Plutarco - Come trarre vantaggio dai nemici ***
Plutarco - Le virtù degli animali ***
Federico Rampini - L'impero di Cindia ****
Giovanni Pettinato - Ebla ***
Max Gallo - Napoleone ****
Ferdianando Romano - La religione di Zarathustra ***
Alessandra Consolaro - I Veda. Introduzione ai testi sacri indiani **
Robert Stewart - I miti della creazione **
Anns Saudin, Costanzo Allione - Lo sciamanesimo siberiano ***
Cecil Woodham Smith - Balaclava. La carica dei 600 **
Silvio Bertoldi - Il re che tentò di fare l'Italia. Vita di Carlo Alberto di Savoia **
Pietro Citati - La luce della notte **
Giuseppe Antonelli - Storia di Roma antica *****
Giuseppe Antonelli - Catilina ****
John Micklethwait, Adrian Wooldridge - La destra giusta *****
Cyril Mango -La civiltà bizantina **
Paolo Alatri - Mussolini ***
Mino Monicelli -La Repubblica di Salò **
Bluche, Rials, Tulard - La Rivoluzione Francese ***
Sun-Tzu - L'arte della guerra *****
Plutarco - Come trarre vantaggio dai nemici ***
Plutarco - Le virtù degli animali ***
Federico Rampini - L'impero di Cindia ****
Giovanni Pettinato - Ebla ***
Max Gallo - Napoleone ****
Ferdianando Romano - La religione di Zarathustra ***
Alessandra Consolaro - I Veda. Introduzione ai testi sacri indiani **
Robert Stewart - I miti della creazione **
Anns Saudin, Costanzo Allione - Lo sciamanesimo siberiano ***
Cecil Woodham Smith - Balaclava. La carica dei 600 **
Silvio Bertoldi - Il re che tentò di fare l'Italia. Vita di Carlo Alberto di Savoia **
Pietro Citati - La luce della notte **
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