martedì 3 luglio 2007

Marxismo 3, la lotta di classe

Tra i luoghi comuni(sti) più propagandati c’è sicuramente quello della lotta di classe; affermazione che esce continuamente nei proclami dell’estrema sinistra, quasi che a furia di essere ripetuta possa materializzarsi prima o poi. E’ stata richiamata durante le primarie per l’elezione a sindaco di Genova, dal poeta Edoardo Sanguineti, che ne ha fatto il suo slogan, invitando addirittura a rispolverare l’odio di classe. E’ chiaro che essendo poeta, per lui i sentimenti sono strumenti di lavoro, è quindi naturale che abbia scelto un sentimento per giustificare le proprie idee, peccato che abbia scelto l’odio, ma ha avuto almeno il pregio di essere sincero e di chiamare le cose con il proprio nome, contrariamente a molti dei suoi giovani adepti che mascherano l’odio dietro altri termini come ad esempio pace, Palestina, poveri del mondo e via dicendo.
Io, che poeta non sono, più modestamente affronterò l’argomento da un punto di vista più ragionato.

Il concetto di classe è naturalmente molto antico e nei secoli si evolve incessantemente. Nell’antichità era spesso collegato a differenziazioni funzionali; il concetto adoperato dalla sinistra comunista risale invece agli inizi della Rivoluzione Industriale e sostanzialmente si rifà al pensiero di Karl Marx.
Questo studioso, osservando la realtà del tempo, aveva elaborato la seguente divisione: ci sono i lavoratori da una parte ed i capitalisti dall’altra. I lavoratori producono la ricchezza, una parte viene riconosciuta loro con la corresponsione del salario, il resto chiamato profitto viene intascato, per Marx in pratica rubato, dal capitalista.
Se questa analisi fosse corretta o meno all’epoca della formulazione è una questione sulla quale ora voglio sorvolare per giungere nel nostro terzo millennio e vedere come stanno le cose.

Intanto è bene chiarire che la figura del Capitalista racchiude in sé due funzioni diverse, che spesso sono svolte da due persone diverse: una è quella di direzione/organizzazione dell’azienda; l’altra è quella di avere la proprietà dell’azienda.
Può darsi che il proprietario si occupi della sua azienda o che se ne disinteressi del tutto; in quest’ultimo caso di fatto l’attività imprenditoriale è svolta da colui che comanda, ma non rischia.
Ora il profitto in realtà va a remunerare queste due funzioni, cioè paga il lavoro del direttore/organizzatore/imprenditore e paga il proprietario per il rischio che corre.
Con questo non voglio dire che per definizione gli stipendi degli amministratori delegati sono sempre giustificati, anzi abbiamo molti esempi in cui non lo sono; lo stesso dicasi per la remunerazione del capitale, ad esempio un capitale impiegato in regime di monopolio non è che corre molti rischi, eppure spesso viene remunerato in maniera ingente.
In ogni caso chi possiede un capitale può detenerlo in forma di banconote sotto il cuscino; oppure comprarsi dei titoli di Stato, oppure assumere delle persone comprare dei macchinari esercitare insomma una attività, è ovvio che si tratta di tre opzioni con diverso grado di rischio e di conseguenza dalle quali ci si aspetta un diverso grado di remunerazione.
E’ vero che se uno eredita un ingente capitale si ritrova ricco senza alcun merito e che tutti, io compreso, vorremmo fare cambio con lui assumendoci pure il rischio di impresa, ma ciò non toglie che sono le imprese investendo a creare la ricchezza che poi circola.

La cosa più interessante è analizzare la condizione dei lavoratori e vedere se veramente la classe esiste e se la lotta che devono intraprendere è quella che dicono i marxisti.
Ecco che se Marx si risveglia oggi ha una sorpresa! A decurtare pesantemente il salario non c’è solo il profitto ma il prelievo fiscale, inoltre tale prelievo decurta pesantemente il profitto stesso, che nella logica marxista è dei lavoratori. Lo Stato intasca una quantità ingente del salario, sia in via diretta che indiretta, quindi è del tutto incoerente richiamarsi al marxismo e tradirne il principale fondamento, cioè la difesa del salario; ma la cosa più grave non è il comportamento dei partiti che hanno tale ispirazione, perché in quanto partiti dovrebbero comunque avere un bilanciamento di interessi di natura diversa, ma è più grave l’atteggiamento dei sindacati che non solo non difendono il salario dalle tasse, ma sono ferocemente ostili a quelle forme contrattuali che riportano parte del profitto in busta paga, ad esempio nei modi indicati dal professor Ichino quando descrive forme di contrattazione aziendale in deroga al Contratto Collettivo Nazionale.

Il limite concettuale più grosso della lotta di classe è che non si riesce a definirla, come già faceva notare, tra gli altri Paul Ginsborg nella sua analisi sulla società italiana. L’altro limite è che nella realtà i lavoratori si trovano ad avere interessi economici legittimi contrastanti. Ciò può avvenire tra settori diversi, ad esempio la destinazione di un’area può favorire i lavoratori di certe imprese rispetto ad altre; chi lavora in imprese che lavorano per il mercato nazionale possono essere avvantaggiati da certe politiche che invece danneggiano quelle dedite all’export. Il conflitto fondamentale è poi tra lavoratori del privato e quelli del pubblico, il sindacato pretende di rappresentare entrambi ma è come se un avvocato divorzista rappresentasse in una causa entrambi i coniugi. Un altro esempio è quello di cui si discute in questi giorni circa l’età pensionabile: chi vuole abolire lo scalone sta rappresentando gli interessi economici dei lavoratori che senza scalone andrebbero in pensione a 57 anni, ma non può pretendere di rappresentare anche gli interessi dei lavoratori giovani, perché i soldi se li dai ai pensionati cinquantasettenni, allora li prendi da chi resta al lavoro. Il resto è propaganda o inganno.
Come abbiamo visto il passo dalla lotta di classe all’odio di classe è breve, ma vista la difficoltà ad individuare le classi e di dare delle risposte realistiche per difenderne gli interessi, tutto si converte più banalmente in odio politico.
Il nemico diventa semplicemente chi la pensa diversamente, chi vota diversamente, a questo si riducono le grandi lotte per l’emancipazione delle masse.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Il corporativismo ha la virtù di far collaborare le classi tra di loro e non di condurle verso stupide lotte come fa invece il comunismo.. quindi un applauso al corporativismo! :-)))

Freeman ha detto...

eia eia alalà!

...bello spunto il paragone con il corporativismo, allora sarà l'argomento di uno dei prossimi post

Freeman ha detto...

eia eia alalà!

...bello spunto il paragone con il corporativismo, allora sarà l'argomento di uno dei prossimi post